Maria

SUPPLEMENTI PER LA LETTURA E L’APPROFONDIMENTO

L’approfondimento che proponiamo è tratto da Giuseppe Marrazzo, Quale Maria?, Collana Segni dei Tempi 2/03, Edizioni Adv, Impruneta FI, 2003, pp. 17-66.

Introduzione

La Chiesa cattolica ritiene che non si possa essere cristiani se non si è seguaci di Maria e, stranamente, il ritorno alla Bibbia voluto da papa Roncalli non doveva andare nel senso del movimento mariano; al contrario il culto della vergine non ha mai raggiunto toni così elevati come quelli ottenuti durante il pontificato di Karol Woytjla. È possibile giustificare questa accesa devozione a partire dal testo biblico? Veramente la mediazione di Gesù non è sufficiente se non è accompagnata da quella di Maria, dei santi e della chiesa? Qual è il ruolo della Madonna1 secondo gli scritti ispirati?

Prendiamo atto che nel Nuovo Testamento, la madre di Gesù occupa un posto limitato e marginale. Le informazioni che abbiamo sul suo conto sono ridottissime. Il personaggio centrale di tutta la Scrittura resta Cristo Gesù.

Dai testi evangelici, non sappiamo nulla circa l’immacolata concezione o l’assunzione, né è possibile tracciare una base per la fede in Maria come mediatrice di ogni grazia. Diversi studiosi, anche cattolici, sono giunti alla conclusione che «la fede nella figura di Maria della tradizione cristiana è fede in qualcosa che non è vero. Il Nuovo Testamento non offre alcuna base per la fede in Maria mediatrice di ogni grazia».2

Recentemente Elian Cuvillier, teologo protestante francese, ha pubblicato con la casa editrice Claudiana, una sintesi dei lavori neotestamentari su Maria, giungendo alla conclusione che il volto della vergine presentato dalla tradizione ha attinto dagli scritti apocrifi e leggendari dei secoli V e VI, piuttosto che dalle rare osservazioni contenute nel Nuovo Testamento. La predicazione paolina, presentata nelle sue numerose epistole, contiene solo un brevissimo e fugace accenno alla madre di Gesù.

Note

1 «Madonna» traduce il latino «mea domina», «mia signora»; nella Scrittura non è mai riferito a Maria.

2 J. McKenzie, «La madre di Gesù nel Nuovo Testamento», in Concilium, XIX (1983) n. 8 pp. 31-41.

 

MARIA NEGLI SCRITTI DI PAOLO

Nelle lettere di Paolo, i documenti più antichi del Nuovo Testamento, la madre di Gesù non compare neppure una volta. C’è un solo e unico accenno in Galati: «Ma quando giunse la pienezza del tempo, Dio mandò suo Figlio, nato da donna, nato sotto la legge» (4:4), dove però non viene neppure indicata per nome. È ovvio che tutti nascono da una donna!

Ma questo è un accenno fugace al contributo di Maria per la nascita del Figlio di Dio che ci ha affrancati da ogni schiavitù, anche dalla tutela della legge che mantiene i fedeli in uno stato minorenne. In Cristo l’uomo diventa «erede maggiorenne» e può godere pienamente dell’eredità. Il ruolo della donna quindi è stato quello di aver acconsentito a «prestare» il suo seno affinché la Parola venisse ad abitare, per un tempo, in mezzo a noi.

«Nato da donna» vuol dire anche che il maschio è stato escluso. Gesù non ha avuto un padre, umanamente parlando. Il suo concepimento soprannaturale dipende solo dalla libertà di Dio stesso, che entra in scena come Creatore. L’azione e l’iniziativa umana non hanno alcuna parte, ma non significa che l’umanità sia completamente esclusa: infatti c’è «la donna». L’ essere maschile, che solitamente ha un ruolo attivo e intraprendente nella storia, qui è passivo. È la donna che occupa il posto principale.

Il teologo protestante Karl Barth (1886-1968) afferma: «Dio non sceglie l’uomo nella sua pienezza virile, nella sua arroganza, nella sua presunzione o nella sua efficienza storica, ma l’uomo umile e vulnerabile, in tutta la sua debolezza naturale, rappresentato dalla donna, l’uomo che non può fare altro che stare davanti a Dio e dire: “Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola!” (Luca 1:38)».1

«Nato da donna» nel terzo millennio ha un significato ancora più completo, considerato il movimento che prevede il riconoscimento della pari dignità tra i due sessi, pur avendo ciascuno funzioni biologiche diverse. Il ruolo di Maria non sarebbe quindi quello di introdurre la chiesa in una sorta di matriarcato, né quello di addolcire la scelta di Eva che l’illuminismo aveva trasformato in una «dèa della ragione», ma quello di essere a pieno titolo membro della comunità umana. Maria non è una figura lontana dal contesto comunitario d’origine, non vive in una sorta di mondo perfetto e immacolato dove si esaltano la sua intelligenza, la sua volontà, i suoi sentimenti. Se fosse stato così sarebbe diventata un modello difficile da imitare, irraggiungibile e addirittura divina.

«Nato da donna» mostra l’autentica umanità di Gesù e, ovviamente, quella di Maria. Se l’iconografia e le descrizioni tradizionali hanno trasformato Maria in una bambina prodigio, maestra in tutte le arti, erudita nelle Scritture, regina, donna pura e santa, esente dal peccato, senza ombra di male, credendo di esaltarla, l’hanno invece allontanata dalla propria comunità e non è più quella donna contrassegnata dalle fragilità, dalle debolezze, dai dubbi e dalle incertezze che contraddistinguono l’esperienza umana, che i vangeli ci fanno conoscere. Per questo unico accenno, si può essere grati all’apostolo Paolo perché ci presenta la «sorella» Maria come una donna «umana» a pieno titolo.

Nota

1 K. Barth, Dogmatik in Grundriss, Evangelischer Verlag, Zollikon-Zürich, 1946, in francese Esquisse d’une dogmatique, Delachaux et Niestlé, Neuchâtel, 1950, p. 97.

Il vangelo di Matteo descrive Maria con un ruolo interamente passivo. Che cosa vuol dire? Sembra quasi che l’autore abbia timore ad attribuire alla madre di Gesù una sorta di posizione privilegiata e per questo motivo desideri in un certo senso minimizzarne la figura. Matteo, senza alcun dubbio, mette l’enfasi su Giuseppe, il personaggio fuori da ogni schema, legalmente necessario per giustificare la linea ascendente di Gesù, come «figlio di Abraamo e di Davide» (cfr. Matteo 1:1). Giuseppe diventa il modello della giustizia superiore. In un primo momento decide di separarsi da Maria senza rendere pubblica la sua decisione, per evitarle l’accusa di adulterio, ma, per la rivelazione di un angelo, cambia idea e accetta di diventare il padre legale di Gesù mediante l’adozione.

«Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo» (Matteo 1:16). Giuseppe non ha alcun ruolo nella nascita di Gesù. È padre per la legge ebraica perché ha riconosciuto il bambino. Gesù dunque diventa figlio di Abraamo e di Davide grazie a Giuseppe che non c’entra nulla con la sua nascita perché Gesù è nato per un atto creatore di Dio. Se la genealogia indica la continuità con la storia di un popolo, la nascita stessa ne indica la discontinuità.

Il vangelo di Matteo inizia con una genealogia costruita in modo geometrico sui numeri 3 e 7. La storia d’Israele è divisa in tre periodi: da Gesù alla deportazione babilonese, dalla deportazione a Davide e da Davide ad Abraamo; ogni periodo è costituito da quattordici generazioni (7 x 2), una ogni quarant’anni. Matteo non è preoccupato di riassumere la storia del popolo di Dio, il suo intento è collegare la venuta del Messia con la stirpe davidica e in modo apologetico vuole dimostrare che Gesù è il compimento delle profezie messianiche dell’Antico Testamento. Poteva Gesù essere accettato dagli ebrei come Messia se non avesse avuto un legame con la stirpe di Davide? Tra le obiezioni che alcuni ebrei rivolgono a Gesù nessuna riguarda il fatto che egli sia il Messia perché discenderebbe da Davide, né viene rigettato perché ci sarebbero dubbi sui legami con l’antenato Davide. Tuttavia Paolo dice che Dio ha disposto che il suo Figlio nascesse «dalla stirpe di Davide secondo la carne» (Romani 1:3).

Ciò che colpisce in questa genealogia però non è la sua geniale architettura, ma il modo in cui Matteo rompe la tradizione semitica di elencare solo il ramo maschile e introduce cinque nomi di donne: Tamar, la nuora incestuosa di Giuda (Genesi 38:1-26); Raab, la prostituta di Gerico che tradì la sua città (Giosuè 2:1-24); Rut, la moabita che si offrì a Boaz per farsi sposare (Rut 3:7-15); Betsheba, bellissima moglie di Uria, capitano dell’esercito, per la quale Davide perse la testa e dopo averla sedotta si macchiò di omicidio, facendo morire in battaglia il marito (2 Samuele 11:2-17; 12:9-13) e infine Maria, madre di Gesù.

Incesto, prostituzione e tradimento, adulterio e omicidio di un fedele servitore, questo è il terreno sul quale è sbocciato lo splendido fiore del Messia.

Il contrasto è stridente: da un lato la perfezione aritmetica della genealogia, dall’altro la morale discutibile alla quale si allude in maniera aperta; siamo dinanzi a un fatto insolito e sorprendente. Matteo non dipinge una «sacra famiglia» composta da personaggi simpatici, così come fanno, seguendo risaputi cliché sentimentali, il cinema, la televisione e l’arte cristiana: Giuseppe, Maria e il bambino Gesù. No! La nascita di Gesù si situa nel contesto giudaico dove la promessa era stata coltivata come una pianticella particolarmente rara e preziosa. Abraamo è il patriarca al quale fu fatta la promessa per la prima volta. Davide è colui al quale la promessa è stata confermata. La prigionia di Babilonia è il tempo in cui la promessa viene precisata con un tempo profetico (cfr. Daniele 9).

«Giacobbe generò Giuseppe, il marito di Maria, dalla quale nacque Gesù, che è chiamato Cristo» (Matteo 1:16). Viste le precedenti formulazioni, sarebbe stato più logico aspettarsi: Giacobbe generò Giuseppe e Giuseppe generò Gesù, ma il brano di Matteo che è giunto fino a noi e che deve essere considerato autorevole ci ricorda che Gesù è figlio di Maria. Anche se alcuni manoscritti minori greci e latini riportano la frase seguente: «Giuseppe al quale fu fidanzata la vergine Maria che generò Gesù» e la versione siro-sinaitica (Peshitta), poco attendibile, dice: «Giuseppe al quale era fidanzata la vergine Maria, generò Gesù».1 In questa versione si insinua che Giuseppe non sia solo il padre legittimo di Gesù ma anche il padre naturale. È possibile che questa modifica si inserisca nel dibattito tra nestoriani e seguaci di Cirillo; tuttavia, per l’autore ispirato, Gesù è pienamente inserito nella storia umana (la stirpe davidica) ma allo stesso tempo, grazie all’azione creatrice dello Spirito, egli è totalmente divino.

Il Messia, citato per due volte consecutivamente (Matteo 1:16,17) sarebbe giunto alla fine del sesto ciclo di sette generazioni. Infatti i tre periodi di quattordici generazioni equivalgono a sei periodi di sette generazioni. Gesù è nato alla fine della sesta settimana di generazioni. In questo modo, Matteo ha voluto indicare la «pienezza dei tempi» utilizzando la cornice biblica tipica del mondo semitico: la genealogia. Lo scopo è quello di dimostrare l’autenticità di Gesù come il Messia promesso tanto atteso.

La nascita di Gesù

I racconti dell’infanzia raccolgono i cinque messaggi trasmessi oralmente per indicare l’adempimento delle profezie messianiche.2 Nella genealogia Matteo dice che Giuseppe è «il marito di Maria», nei versetti seguenti (18-25) egli specifica che Maria era fidanzata a Giuseppe, cioè non l’aveva ancora introdotta nella sua casa e non aveva ancora cominciato a vivere con lei. In modo semplice e stringato il testo dice che Maria «si trovò incinta per opera dello Spirito Santo» (Matteo 1:18).

«La giovane partorirà un figlio»

«Tutto ciò avvenne, affinché si adempisse quello che era stato detto dal Signore per mezzo del profeta: “La vergine sarà incinta e partorirà un figlio, al quale sarà posto nome Emmanuele”, che tradotto vuol dire: “Dio con noi”» (Matteo 1:22,23).

Per Matteo non ci sono dubbi, la nascita miracolosa di Gesù è il compimento della profezia di Isaia: «Perciò il Signore stesso vi darà un segno: Ecco, la giovane concepirà, partorirà un figlio, e lo chiamerà Emmanuele. Egli mangerà panna e miele finché sappia rigettare il male e scegliere il bene. Ma prima che il bambino sappia rigettare il male e scegliere il bene, il paese del quale tu temi i due re, sarà devastato» (Isaia 7:14-16).

Matteo applica a Gesù la profezia relativa alla nascita di un fanciullo narrata dal profeta Isaia. In quel tempo il re Achaz, del regno di Giuda, era minacciato dall’alleanza siro-efraimita del nord che sperava di costituire un fronte unico per frenare le mire espansionistiche di Tiglat-Pileser III, re dell’Assiria. Ma Achaz, per difendersi dalla minaccia del nord, chiede aiuto proprio all’Assiria, la quale interviene ben volentieri e con sollecitudine. Isaia esorta il re Achaz a non lasciarsi spaventare dalla minaccia proveniente dal nord perché quell’alleanza sarebbe stata di breve durata. Come segno della veridicità di questo messaggio Isaia parla della «giovane» che partorirà un bambino cui verrà dato il nome Emmanuele (con noi Dio). «Ma prima che il bambino sappia rigettare il male e scegliere il bene, il paese del quale tu temi i due re, sarà devastato» (Isaia 7:16). La coalizione nemica del nord ha i giorni contati, presto sarà fiaccata e soggiogata.

«Poiché un bambino ci è nato, un figlio ci è stato dato, e il dominio riposerà sulle sue spalle; sarà chiamato Consigliere ammirabile, Dio potente, Padre eterno, Principe della pace, per dare incremento all’impero e una pace senza fine al trono di Davide e al suo regno, per stabilirlo fermamente e sostenerlo mediante il diritto e la giustizia, da ora e per sempre: questo farà lo zelo del Signore degli eserciti» (Isaia 9:5,6). Achaz non ha saputo accogliere con fede l’appello del Signore e la sua scelta politica si è rivelata miope e poco perspicace. Naturalmente il brano di Isaia guarda oltre il compimento contingente legato al suo tempo e quel bambino è molto più di un segno per un re caparbio e infedele: il brano ha un «sapore» messianico.

Vergine

La parola parthénos (vergine, giovane donna) ha origini incerte. In un primo momento sembra indicare la fanciulla che è diventata donna. In seguito il significato si restringe e diventa «la donna non ancora toccata dall’uomo». Nel mondo greco e in altre culture extrabibliche la verginità viene altamente apprezzata. Sul piano religioso diverse divinità mantengono questa proprietà: Artemide e Atena, quest’ultima soprannominata «Parthenos», da cui deriva il Partenone, il tempio di Atene a lei dedicato. In ebraico esistono due vocaboli per indicare la vergine: ‘almah e betullah’. Il secondo termine indica la vergine integra, sempre sinonimo di speranza (cfr. Amos 8:13; Isaia 24:4; Lamentazioni 1:18). ‘Almah’ invece significa «fanciulla» o «donna giovane» al suo primo parto (Proverbi 30:10). Nel testo di Isaia 7:14 troviamo questo termine che nella Septuaginta, traduzione greca dell’Antico Testamento, è tradotto parthénos. «Giuseppe, destatosi dal sonno, fece come l’angelo del Signore gli aveva comandato e prese con sé sua moglie; e non ebbe con lei rapporti coniugali finché ella non ebbe partorito un figlio; e gli pose nome Gesù» (Matteo 1:24,25). Matteo non ha dubbi sulla verginità di Maria prima del parto e fino alla nascita di Gesù, ma non è scandalizzato del fatto che Maria possa non mantenere questo status immacolato anche dopo. L’evangelista è preoccupato di mostrare le caratteristiche messianiche di Gesù e non è interessato a Maria «sempre vergine». Anzi sembra proprio che le «qualità» di Maria (se ve ne sono) niente aggiungano e niente tolgano al miracolo più grande: l’incarnazione del figlio di Dio, venuto a vivere come uomo tra gli uomini.

L’esaltazione della figura di Giuseppe, vero protagonista del vangelo dell’infanzia secondo Matteo, serve a collegare il Messia con la figura di Abraamo, erede della promessa divina. A Giuseppe l’angelo rivela di trovare riparo in Egitto e sottrarre il bambino alla furia omicida del re Erode, nuovo faraone.

L’Egitto e il ritorno dall’Egitto si collegano ai temi dell’Esodo e Gesù viene presentato come il Mosè della nuova alleanza. Maria occupa un posto marginale anche se l’autore del primo vangelo ha stemperato la polemica sollevata da Marco circa i rapporti tra Gesù e i suoi familiari.

Note

1 La Bibbia di Gerusalemme, Centro Editoriale Dehoniano, Bologna, 1974, p. 2.086. «Il testo più autorevole può pur sempre significare che Giuseppe era il padre di Gesù, e l’uso del passivo “fu generato” potrebbe segnalare il tentativo imperfettamente riuscito di adattare la frase in modo da renderla coerente con il successivo racconto del concepimento verginale» G. Parrinder, Figlio di Giuseppe, Claudiana, Torino, 1995, pp. 17-19. La versione siriaca chiamata Peshitta («semplice», «comune») si basa su un lavoro di Rabbula (411-435), vescovo di Edessa, il quale si è basato su antiche traduzioni siriache confrontandole con la versione greca del Nuovo Testamento che circolava in Antiochia. A partire dal nono secolo, la Peshitta, per la sua traduzione comune, è diventato il testo più usato dalla chiesa siriaca.

2 Küng ritiene che anche esegeti cattolici sostengono che si tratta di «racconti poco attendibili, tra loro contraddittori, marcatamente leggendari e in ultima analisi motivati da istanze teologiche che si distinguono per una loro particolare impronta… Benché non si possa escludere la possibilità che Matteo e Luca abbiano elaborato materiale storico, è evidente che non ci troviamo di fronte a resoconti di carattere storico. Si tratta piuttosto di racconti verosimilmente forgiati da comunità giudeo-cristiane e rielaborati da Matteo e Luca, che li premisero ai loro vangeli» (H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano, 1976, pp. 510, 511).

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Maria, serva di Dio (Luca 1:38)

Maria crede (Luca 1:45) e si definisce «ancella del Signore», che si dichiara disponibile ad accogliere un peso più grande di lei e a portarlo umilmente. «Mi sia fatto secondo la tua parola» (Luca 1:38). Matteo e Luca si soffermano maggiormente sui racconti miracolosi della nascita di Gesù. Sono brani che, nel fornirci dettagli biografici anche se non era la principale motivazione, proclamano la fede nella natura divina di Gesù. «Non è necessario un lungo discorso per rilevare che l’intento dei due redattori neotestamentari è cristologico e in questa chiave i prologhi vanno letti».1

L’annunciazione

«Al sesto mese, l’angelo Gabriele fu mandato da Dio in una città di Galilea, chiamata Nazaret, a una vergine fidanzata a un uomo chiamato Giuseppe, della casa di Davide; e il nome della vergine era Maria. L’angelo, entrato da lei, disse: “Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te”. Ella fu turbata a queste parole, e si domandava che cosa volesse dire un tale saluto. L’angelo le disse: “Non temere, Maria, perché hai trovato grazia presso Dio. Ecco, tu concepirai e partorirai un figlio, e gli porrai nome Gesù. Questi sarà grande e sarà chiamato Figlio dell’Altissimo, e il Signore Dio gli darà il trono di Davide, suo padre. Egli regnerà sulla casa di Giacobbe in eterno, e il suo regno non avrà mai fine”. Maria disse all’angelo: “Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?” L’angelo le rispose: “Lo Spirito Santo verrà su di te e la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua; perciò, anche colui che nascerà sarà chiamato Santo, Figlio di Dio. Ecco, Elisabetta, tua parente, ha concepito anche lei un figlio nella sua vecchiaia; e questo è il sesto mese, per lei, che era chiamata sterile; poiché nessuna parola di Dio rimarrà inefficace”. Maria disse: “Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola”. E l’angelo la lasciò» (Luca 1:26-38).

«Ti saluto, o favorita dalla grazia; il Signore è con te». Questa parola dell’angelo poteva essere rivolta a qualunque altro personaggio biblico. Non c’è in questo saluto nessuna caratteristica personale di Maria. Non è a causa di una sua virtù o di una straordinaria pietà che è stata definita beata. Il semplice fatto che l’angelo del Signore le rivolga la parola è di per sé un motivo sufficiente per considerarsi felice. La luce del Signore discende su di lei e la illumina. Maria riceve la grazia non perché possedesse già qualche virtù, ma perché è un dono che l’angelo le porta gratuitamente.

«Il Signore è con te»: il dono di Dio non resta esteriore alla sua vita, ma compie l’azione divina in lei. Quando Dio dona la grazia, quando si abbassa al nostro livello, quando manifesta la sua misericordia, allora qualcosa di nuovo accade: «Il Signore è con te». Esiste una vera relazione tra te e il Signore!

«Tu concepirai e partorirai un figlio…» e Maria risponde: «Come avverrà questo, dal momento che non conosco uomo?». L’angelo non risponde direttamente, né spiega come avverrà la gravidanza, ma fa una dichiarazione rassicurante che esige la fiducia di Maria. Le espressioni, tutte al futuro, «verrà su di te» e «la potenza dell’Altissimo ti coprirà dell’ombra sua» dicono che Maria ha concepito il Figlio di Dio grazie all’intervento della potenza divina.

«Ecco, io sono la serva del Signore; mi sia fatto secondo la tua parola» (v. 38). Possiamo comprendere l’onnipotenza di Dio solo se agiamo come Maria, se come lei siamo disposti a cedere, a capitolare, se siamo d’accordo e siamo disposti a dire: «Mi sia fatto secondo la tua parola!». Allora soltanto possiamo comprendere che quello che il Signore dice, egli lo compie. È in questo modo semplice che Maria entra nella storia dell’avvento. «Nell’umiltà e nel vicolo cieco della sua esistenza, Maria accetta l’intrusione della novità liberatrice di Dio. Luca trasforma in racconto una definizione della fede che, ancora oggi, è di una significativa attualità».2

La visitazione

«In quei giorni Maria si alzò e andò in fretta nella regione montuosa, in una città di Giuda, ed entrò in casa di Zaccaria e salutò Elisabetta. Appena Elisabetta udì il saluto di Maria, il bambino le balzò nel grembo; ed Elisabetta fu piena di Spirito Santo, e ad alta voce esclamò: «Benedetta sei tu fra le donne, e benedetto è il frutto del tuo seno! Come mai mi è dato che la madre del mio Signore venga da me? Poiché ecco, non appena la voce del tuo saluto mi è giunta agli orecchi, per la gioia il bambino mi è balzato nel grembo. Beata è colei che ha creduto che quanto le è stato detto da parte del Signore avrà compimento» (Luca 1:39-45).

Elisabetta, la sterile resa feconda solo in tarda età, come Sara, moglie di Abraamo, è in attesa di un figlio. Maria, la fanciulla che è appena giunta allo sviluppo fisico e non ancora sposata, è in attesa di un bambino. Giovanni e Gesù, il precursore e il Messia, si incontrano e si salutano dal ventre delle loro rispettive madri. Nelle parole di Elisabetta, il precursore si inchina davanti al Signore che Maria porta in grembo. Il suo saluto è molto simile a quello di Debora verso Iael per aver liberato Israele dall’oppressione di Sisera: «Benedetta sia fra le donne Iael, moglie di Eber, il Cheneo! Fra le donne che stanno sotto le tende, sia benedetta!» (Giudici 5:24). Eppure non si conosce nessun culto a Iael, pur essendo «benedetta fra le donne». Maria risponde con il Magnificat.

Cantico di Maria: Magnificat

«E Maria disse: “L’anima mia magnifica il Signore e lo spirito mio esulta in Dio, mio Salvatore, perché egli ha guardato alla bassezza della sua serva. Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata, perché grandi cose mi ha fatte il Potente. Santo è il suo nome; e la sua misericordia si estende di generazione in generazione su quelli che lo temono. Egli ha operato potentemente con il suo braccio; ha disperso quelli che erano superbi nei pensieri del loro cuore; ha detronizzato i potenti, e ha innalzato gli umili; ha colmato di beni gli affamati, e ha rimandato a mani vuote i ricchi. Ha soccorso Israele, suo servitore, ricordandosi della misericordia, di cui aveva parlato ai nostri padri, verso Abraamo e verso la sua discendenza per sempre”. Maria rimase con Elisabetta circa tre mesi; poi se ne tornò a casa sua» (Luca 1:46-56).

Il canto di Maria rievoca quello della liberazione d’Israele. Riprende temi noti nella tradizione ebraica. Anna, alla nascita di Samuele (che significa «il Signore ascolta»), si presenta nel tempio di Yahweh e pro rompe in un canto di gioia: «Il mio cuore esulta nel Signore… L’arco dei potenti è spezzato, ma quelli che vacillano sono rivestiti di forza. Quelli che una volta erano sazi si offrono a giornata per il pane, e quanti erano affamati ora hanno riposo… Il Signore fa impoverire e fa arricchire, egli abbassa e innalza. Alza il misero dalla polvere e innalza il povero dal letame, per farli sedere con i nobili, per farli eredi di un trono di gloria; poiché le colonne della terra sono del Signore e su queste ha poggiato il mondo…» (1 Samuele 2:1-10).

Il salmista esalta il suo Dio: «Il Signore vive: sia benedetta la mia Rocca! Sia esaltato il Dio della mia salvezza!» (Salmo 18:46).

Miriam, sorella di Mosè, dopo la traversata del mar Rosso, canta con il popolo di Israele: «Il Signore è la mia forza e l’oggetto del mio cantico; egli è stato la mia salvezza. Questi è il mio Dio, io lo glorificherò, è il Dio di mio padre, io lo esalterò… Chi è pari a te fra gli dèi, o Signore? Chi è pari a te, splendido nella tua santità, tremendo anche a chi ti loda, operatore di prodigi?… Il Signore regnerà per sempre, in eterno… E Miriam rispondeva: «Cantate al Signore, perché è sommamente glorioso…» (Esodo 15:2-21).

Maria esulta grandemente e si rallegra che il Signore abbia posato su di lei il suo sguardo, ma sente il bisogno di riconoscerlo non solo come Signore, Dio eterno e potente, ma anche come personale Salvatore. Maria come ogni essere umano è nata con la forte ipoteca della fragilità e del peccato, non è immacolata e pura e conferma l’esigenza di affidare la sua sorte nelle mani del Salvatore.

La fanciulla ebrea, semplice e forse di origine levitica, se si considera la parentela con Elisabetta e se si presume che i sacerdoti si sposino con ragazze della tribù di Levi, esalta le aspirazioni più elevate e le speranze più forti della sua tradizione religiosa.

Ella scorge un nuovo orizzonte, vede venire l’ora solenne del compimento delle profezie messianiche.

«Egli ha guardato alla bassezza della sua serva».

Lo sguardo di Maria è rivolto al Signore, grande e potente, il quale si china verso di lei piccola e fragile. Il Signore volge il suo sguardo sulla povera chiesa. Se fissiamo lo sguardo sulla piccola Maria o sulla povera chiesa non troviamo alcun motivo di esaltazione o di gioia. Ma se lo fissiamo su colui che ha guardato alla bassezza della sua serva, allora comprenderemo. Geremia lo ribadisce: «Il saggio non si glori della sua saggezza, il forte non si glori della sua forza, il ricco non si glori della sua ricchezza; ma chi si gloria si glori di questo: che ha intelligenza e conosce me, che sono il Signore. Io pratico la bontà, il diritto e la giustizia sulla terra, perché di queste cose mi compiaccio, dice il Signore» (Geremia 9:23,24).

Dio è il Dio dei poveri, di coloro che si trovano nell’angoscia e che vivono le tensioni più profonde. Non può essere diversamente visto che egli è il Salvatore! Dato che è pronto a posare il suo sguardo sulla bassezza della sua serva, diventa il Dio della grazia, colui che è vicino all’umanità con una misericordia incondizionata, una bontà infinita. Egli conosce esattamente chi siamo e dove siamo, ma ci viene ugualmente in aiuto. È sufficiente per lui guardarci e in questo sguardo troviamo ogni cosa. Tutto ciò che segue è contenuto in questa frase senza onore: «Egli ha guardato alla bassezza della sua serva».

«Da ora in poi tutte le generazioni mi chiameranno beata». Quale indescrivibile grandezza in questa sovrapposizione! Da una parte è sufficiente a Dio uno sguardo per diffondere la pienezza della sua grazia e dall’altra c’è la portata immensa della sua potenza in questo evento: «tutte le generazioni mi chiameranno beata» (v. 48)!

Tutti gli angeli dei cieli guardano questa semplice ragazza cui non è successo altro che accogliere lo sguardo di Dio, nonostante la sua bassezza. Quel breve istante è pieno di eternità. In quello sguardo troviamo l’evento straordinario, il più grande che sia mai accaduto nel cielo e sulla terra. Questo è vero per Maria ed è vero per la chiesa. Da ora in poi tutta la storia ha la sua origine, il suo centro e la sua fine in questo punto fermo: Cristo Gesù. La nostra vocazione è quella di essere accanto a Maria. Non dobbiamo fare altro che, come Maria, lasciare compiere tutto a Dio. Il riformatore tedesco, Martin Lutero ha così commentato: «Si badi alle parole: essa non dice che si parlerà molto bene di lei, che si celebrerà la sua virtù, si esalterà la sua verginità o umiltà, o che si canterà un inno all’opera sua, ma si dirà soltanto che Dio ha riguardato a lei, per cui essa è beata. Ciò significa onorare Dio con tanta purezza, che non sarebbe possibile di più. Per questa ragione essa accenna allo sguardo e dice: “Ecce enim, ex hoc beatam me dicent omnes generationes”. “Ecco, d’ora innanzi mi chiameranno beata…”, cioè da questo momento in cui Dio ha riguardato alla mia bassezza, io vengo chiamata beata. Non viene lodata lei, ma la grazia di Dio scesa sulla sua persona; anzi viene disprezzata e disprezza se stessa, dicendo che la sua bassezza è stata riguardata da Dio. Perciò celebra anche la sua beatitudine prima di narrare le opere che Dio le ha fatto e tutto attribuisce allo sguardo divino posatosi sulla sua bassezza».

«Ha detronizzato i potenti, e ha innalzato gli umili». Il nostro cuore può magnificare il Signore solo se siamo piccoli. Dio non ha niente a che vedere con i potenti. Ogni volta che desideriamo relazionarci con il Padre diventiamo quei potenti che devono essere ribaltati dai loro piccoli troni. Dio vuole incontrarsi con chi è disposto a riconoscere la sua piccolezza, la sua miseria. Sono coloro che hanno capito di essere «come polvere», nella loro bassezza, che hanno bisogno di un Salvatore verso il quale saranno riconoscenti per sempre. Questa è una regola del regno che anche il Magnificat ci vuole ricordare.

Due allusioni alla madre di Gesù durante il suo ministero

«Sua madre e i suoi fratelli vennero a trovarlo; ma non potevano avvicinarlo a motivo della folla. Gli fu riferito: “Tua madre e i tuoi fratelli sono là fuori, e vogliono vederti”. Ma egli rispose loro: “Mia madre e i miei fratelli sono quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica”» (Luca 8:19-21).

Il tono polemico di questa affermazione, addolcita rispetto alla versione di Marco, ricorda molto un altro detto di Gesù: «Or molta gente andava con lui; ed egli, rivolto verso la folla disse: “Se uno viene a me e non odia suo padre, sua madre, e la moglie, i fratelli, le sorelle e persino la sua propria vita, non può essere mio discepolo. E chi non porta la sua croce e non viene dietro a me, non può essere mio discepolo”» (Luca 14:25-27). Il tema della famiglia allargata, che è disposta a mettere in pratica la Parola di Dio dopo averla ascoltata e a seguire il Maestro, non esclude la famiglia carnale di Gesù. Sua madre e i suoi fratelli lo hanno accettato come Signore, ma la loro conversione è avvenuta lentamente.

Nel ricordare la presenza di Maria alla Pentecoste (cfr. Atti 1:14), Luca sottolinea il fatto che la madre di Gesù ha accettato di far parte di quella famiglia allargata che è la chiesa. Ella non pretende di avere alcun privilegio particolare perché madre biologica del Messia, ma è insieme con i discepoli nella camera alta per ricevere i doni dello Spirito Santo, tramite i quali la chiesa può annunciare il messaggio della salvezza in modo potente. Più che come madre della chiesa, Maria appare come «figlia».

Un’altra allusione alla madre di Gesù viene fatta da una donna sconosciuta tra la folla: «Mentre egli diceva queste cose, dalla folla una donna alzò la voce e gli disse: “Beato il grembo che ti portò e le mammelle che tu poppasti!”. Ma egli disse: “Beati piuttosto quelli che ascoltano la parola di Dio e la mettono in pratica!”» (Luca 11:27,28).

Il grembo e le mammelle sono i due attributi della maternità. «Beata la donna che ti ha messo al mondo!», indica stupore, meraviglia e ammirazione per l’insegnamento di Gesù. Ogni madre dovrebbe essere fiera di avere un figlio come lui. Eppure Gesù non afferma e non nega, si limita a integrare la frase. Le relazioni familiari hanno un valore solo se sono subordinate all’ascolto della Parola di Dio e alla sottomissione alla sua volontà. L’avverbio menoun, tradotto con «piuttosto», riconosce in quella affermazione un fondamento di verità, ma vi contrappone una verità più grande e più completa: sono più felici coloro che prestano attenzione alle parole di Dio e ubbidiscono a lui. In conclusione, Gesù non è disposto a trasferire su sua madre alcuna rivelazione o alcuna sua prerogativa, anzi coglie l’occasione per ribadire che l’appartenenza alla stessa famiglia non implica una relazione privilegiata, ma chiunque ascolta la voce dello Spirito può diventare membro della famiglia divina.

Gesù dodicenne

«I suoi genitori andavano ogni anno a Gerusalemme per la festa di Pasqua. Quando giunse all’età di dodici anni, salirono a Gerusalemme, secondo l’usanza della festa; passati i giorni della festa, mentre tornavano, il bambino Gesù rimase in Gerusalemme all’insaputa dei genitori; i quali, pensando che egli fosse nella comitiva, camminarono una giornata, poi si misero a cercarlo tra i parenti e i conoscenti; e, non avendolo trovato, tornarono a Gerusalemme cercandolo. Tre giorni dopo lo trovarono nel tempio, seduto in mezzo ai maestri: li ascoltava e faceva loro delle domande; e tutti quelli che l’udivano, si stupivano del suo senno e delle sue risposte. Quando i suoi genitori lo videro, rimasero stupiti; e sua madre gli disse: “Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena”. Ed egli disse loro: “Perché mi cercavate? Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?”. Ed essi non capirono le parole che egli aveva dette loro» (Luca 2:41-50).

Con questo episodio si concludono i racconti dell’infanzia descritti da Luca. Gesù, dopo la celebrazione della Pasqua, è protagonista nel tempio e pone domande ai maestri della legge. «Come un discepolo in cerca d’istruzioni, li interrogò sulle profezie e sugli eventi relativi alla venuta del Messia. Gesù appariva assetato della conoscenza di Dio. Le sue domande svelavano verità profonde, da lungo tempo trascurate, ma d’importanza vitale per la salvezza. Ognuna di esse metteva in luce la grettezza e la superficialità del sapere di quei maestri e contemporaneamente faceva scorgere un nuovo aspetto della verità».3 Giuseppe e Maria hanno perso di vista Gesù e si mettono a cercarlo dopo aver già fatto il percorso di una giornata. Comprendiamo le ansie e i cupi presentimenti che possono attraversare la mente di genitori che non hanno saputo vegliare sul proprio ragazzo e dopo attente ricerche lo trovano nel tempio a interrogare i teologi. La gioia del ritrovamento non ha fatto dimenticare la paura del cuore e Maria lo rimprovera: «Figlio, perché ci hai fatto così? Ecco, tuo padre e io ti cercavamo, stando in gran pena» (v. 48). Giuseppe è il «padre» di Gesù e Gesù sottolinea che la sua missione consiste nel fare la volontà del Padre suo. È normale che Maria e Giuseppe considerino Gesù come loro figlio, ma in quest’ultimo comincia a delinearsi il senso della sua missione: egli è il figlio di Dio. «Non sapevate che io dovevo trovarmi nella casa del Padre mio?». È interessante che Gesù giunga a questa nuova consapevolezza in coincidenza con due eventi importanti: la festa della Pasqua e la cerimonia di passaggio dall’infanzia a essere «figlio della legge» (bar mitzvah). Se la festa di Pasqua indicava il «passaggio» dalla schiavitù alla liberazione, diventare «figlio della legge» segnava il passaggio dall’infanzia all’età adulta e responsabile. Per i maschi la scuola cominciava a cinque anni; venivano iscritti alla «casa del libro» (bet ha-sefer), dove trascorrevano almeno mezza giornata per sei giorni a settimana. A dieci anni si passava al livello superiore, alla «casa della sapienza» (bet talmud); la materia principale era costituita dalla conoscenza della legge di Dio. A tredici anni il ragazzo ebreo veniva considerato un uomo e l’anno precedente a questa importante tappa della vita si incoraggiavano i giovanetti a compiere il pellegrinaggio alla santa città. In occasione di queste due feste importanti, una per la nazione e una personale, Gesù prende consapevolezza della sua missione speciale per tutti gli abitanti della terra.

Luca, che tra i vangeli è quello più esplicito su Maria, non nasconde in questo episodio l’aspetto misterioso delle parole di Gesù rivolte ai suoi genitori. «La madre vegliava con il più grande amore sullo sviluppo di Gesù e ammirava la perfezione del suo carattere. Era lieta di incoraggiare quel bambino vivace e intelligente e riceveva dallo Spirito la saggezza necessaria per collaborare con gli angeli all’educazione di questo bimbo che poteva rivolgersi a Dio come al Padre».4

Maria ha custodito ogni cosa nel cuore «Maria serbava in sé tutte queste cose, meditandole in cuor suo» (Luca 2:19).

Maria di Nazaret ha custodito tutte queste cose nel cuore anche se non comprende tutto, perché «cammina nell’oscurità della fede e non nella chiarezza della visione». La meditazione di Maria non indica un punto d’arrivo, ma una ricerca continua che, tra incertezze e dubbi, si scioglie completamente solo dopo, quando alla luce del risorto, con gli altri discepoli, capisce che Gesù oltre a essere il suo figlio biologico diventa il suo Salvatore spirituale. Anche per Luca, Maria diventa la nostra sorella nella fede, figlia della chiesa e non madre. Non è simbolo di un’umanità escatologica, pienamente illuminata, piena di santità e di saggezza, ma è il modello di una donna di fede cui non sono risparmiati i momenti oscuri e indecifrabili per quello che è accaduto a lei e ai suoi contemporanei.

Note

1 A. Sonelli, «Appendice» in La vergine Maria di G. Miegge, pp. 313, 314.

2 E. Cuvillier, Maria chi sei veramente?, Claudiana, Torino, 2001, p. 40.

3 E.G. White, La speranza dell’uomo, Edizioni Adv, Impruneta, 2002, p. 48.

4 Idem, pp. 48,50.

Il vangelo di Marco non nasconde l’incomprensione tra Gesù e la sua famiglia (cfr. Marco 3:20,21; 31-35; 6:1-6; 15:40). Tra Gesù e i suoi più stretti familiari, compresa sua madre, si stabilisce un clima di incomprensione che non viene taciuto. Esiste quasi un rapporto di freddezza, se non di ostilità, tra «i fratelli e le sorelle» e Gesù. Matteo (12:46-50) e Luca (8:19-21) hanno attenuato il rapporto di freddezza presente in Marco anche se resta comunque un quadro alquanto neutrale. Perfino Giovanni, che non dipende dagli altri vangeli, dice che «neppure i suoi fratelli credevano in lui» (Giovanni 7:5). «Tolto questo episodio», afferma il teologo cattolico Hans Küng, «il vangelo più antico non ci restituisce assolutamente nient’altro sulla figura di Maria. Ed è invero singolare che nella predicazione cristiana proprio quell’unica scena sia stata poi sospinta in secondo piano e definitivamente abbandonata: con la dignità della “piena di grazia” poteva risultare inconciliabile solo per chi a priori esimeva Maria dal dubbio e dalla fede».1

«È fuori di sé»

«Poi entrò in una casa e la folla si radunò di nuovo, così che egli e i suoi non potevano neppure mangiare. I suoi parenti, udito ciò, vennero per prenderlo, perché dicevano: “È fuori di sé”» (Marco 3:20,21).

Uno scrittore ebreo, descrivendo la madre di Gesù nel contesto della sua cultura e commentando questo brano di Marco, ha affermato: «Egli (Gesù) non vuole avere nulla a che fare con lei. Evidentemente lei non l’ha mai capito, lo ha ritenuto un disturbato mentale e troppo tardi si è convertita a lui».2

La famiglia di Gesù doveva essere alquanto imbarazzata tutte le volte che questi parlava della classe dirigente, considerandola il vero ostacolo alla crescita spirituale del popolo. Gesù si spostava sul territorio palestinese con il gruppo dei suoi amici e sicuramente la madre aveva saputo delle lunghe notti trascorse in preghiera e dei suoi prolungati digiuni.

Come ogni madre, Maria si preoccupava della salute del figlio che non riposava né si alimentava a sufficienza e finalmente si lasciò convincere a fare il tentativo di riportarlo a casa e farlo ragionare.3 «L’azione della madre e dei fratelli di Gesù potrebbe essere considerata come un legittimo tentativo di assisterlo o di proteggerlo».4

«Vennero per prenderlo»: i parenti più vicini vogliono riportare a casa Gesù. È come se stessero per chiedergli di interrompere la sua missione. Essi hanno un’altra logica e non capiscono che un loro familiare stretto abbia potuto consacrarsi al Signore in un modo così completo e totale. Non solo non capiscono, ma quell’atteggiamento protettivo potrebbe mascherare la loro cecità. «Una tale cecità è sempre un pericolo per parenti e familiari di uomini che Dio chiama a un particolare servizio, ed è un ammonimento a guardarsi da pensieri di ordine semplicemente “naturale” e da preoccupazioni borghesi concernenti il buon nome, la salute e gli affari. Gesù sta fuori da queste categorie, per quanto umanamente comprensibili, e fa entrare anche i suoi discepoli al servizio delle esigenze di Dio».5

«Accompagnare a casa il figlio “pazzo” di Maria è un gesto protettivo, ma cercare di afferrare il Cristo, il Figlio di Dio, è follia, è infedeltà. La madre, i fratelli e i vicini di Gesù sono così calati nel mondo dei rapporti sociali convenzionali da essere ciechi davanti alla nuova epoca e alla nuova famiglia che Gesù stesso stabilisce. I loro legami con lo status quo impediscono lo sviluppo di qualsiasi frutto della fede».6

«Ecco mia madre!»

«Giunsero sua madre e i suoi fratelli; e, fermatisi fuori, lo mandarono a chiamare. Una folla gli stava seduta intorno, quando gli fu detto: “Ecco tua madre, i tuoi fratelli e le tue sorelle là fuori che ti cercano”. Egli rispose loro: “Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?” Girando lo sguardo su coloro che gli sedevano intorno, disse: “Ecco mia madre e i miei fratelli! Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre”» (Marco 3:31-35).

Maria e i fratelli di Gesù si recano sul luogo dove il Maestro, circondato dalla folla, sta insegnando. La presenza di Maria non indica che ella condivida la posizione degli altri membri della famiglia; le scelte importanti nella soluzione di problemi simili erano prese dai maschi adulti. Ma possono dei fratelli più giovani agire in questo modo nei confronti del primogenito? È certo però che nella risposta ai suoi familiari Gesù non fa alcuna distinzione tra la madre e i fratelli, né si intravede una forma di dissociazione di Maria dai fratelli di Gesù.

«E fermatisi fuori lo mandarono a chiamare . . .» (v. 31). La legge e l’usanza ebraica volevano che Gesù si alzasse immediatamente, per andare incontro a sua madre. Non solo non lo fece, ma addirittura disse: «Chi è mia madre e chi sono i miei fratelli?» ( v. 33). Questo atteggiamento è scandaloso in qualsiasi società, ma soprattutto in Israele dove il senso della famiglia è tuttora molto forte. Gesù capì che i suoi oppositori avevano voluto sfruttare i legami di parentela per tentare di correggere la sua strategia missionaria che urtava contro gli interessi della classe dominante. La sua famiglia, inclusa sua madre, in buona fede, si era prestata al subdolo gioco dei potenti, dimostrando così di non aver ancora capito la vera missione del Cristo. Egli respinge non solo i suoi avversari, ma anche la madre, i fratelli e le sorelle. I familiari volevano impadronirsi di lui, ma Gesù ha lasciato la sua famiglia e si è dedicato completamente al Signore. In questo atteggiamento non c’è freddezza d’animo, né disprezzo dei legami familiari.

«Gesù ha scelto un’altra famiglia in luogo di quella terrena: una famiglia spirituale. Egli volge lo sguardo sugli uomini che stanno seduti in cerchio attorno a lui, e li chiama “sua madre e suoi fratelli”».7

Occasione di scandalo

«Gesù lasciò quel luogo e tornò nella sua città accompagnato dai discepoli. Quando fu sabato, cominciò a insegnare nella sinagoga. Molti di quelli che lo ascoltavano si meravigliavano e dicevano: “Ma dove ha imparato tutte queste cose? Chi gli ha dato tutta questa sapienza? Come mai è capace di compiere miracoli così grandi? Non è lui il falegname, il figlio di Maria e il fratello di Giacomo, Ioses, Giuda e Simone? E le sue sorelle non vivono qui in mezzo a noi?” Per questo non volevano più saperne di lui. Ma Gesù disse loro: “Un profeta è disprezzato soprattutto nella sua patria, tra i suoi parenti e nella sua famiglia”. Così in quell’ambiente non ebbe la possibilità di fare miracoli (guarì soltanto pochi malati posando le mani su di loro). E si meravigliava del fatto che quella gente non avesse fede» (Marco 6:1-6 Tilc).

Nella città paterna, Gesù si scontra con la più crassa incredulità. L’opera del Messia non appare chiara ai suoi contemporanei. Proprio là dove è cresciuto, è conosciuto e sono conosciuti anche i suoi parenti, sua madre, i suoi fratelli e le sue sorelle, Gesù si trova davanti al loro rifiuto e comprende che i profeti sono onorati ovunque tranne che nella loro patria, nella loro terra e nella propria famiglia.

«Essi non riescono a spiegarsi il mistero della sua persona nemmeno di fronte alla grandezza dei prodigi che egli compie».8 Gli abitanti di Nazaret conoscono Gesù come «il falegname» e lo riconoscono solo come tale. Gesù aveva aiutato suo padre nel lavoro e aveva imparato lo stesso mestiere. Viene indicato anche come «figlio di Maria» e «fratello» di altri uomini che appartengono alla sua famiglia.

Il proverbio popolare diceva: «Nessun profeta è disprezzato se non nella sua patria», ma Marco aggiunge «… fra i suoi parenti e in casa sua». «Si tratta di un altro attacco implicito di Marco contro la famiglia di Gesù, che è stata lenta a riconoscere in lui il profeta di Dio».9 Gli ebrei, come in tutte le culture mediterranee, avevano un forte senso della famiglia e della parentela stretta. Nel vangelo di Marco, pur attenuando i fatti e i detti, è evidente che i rapporti tra Gesù e la sua famiglia non sono particolarmente calorosi.

Il brano però non vuole sottolineare le incomprensioni familiari, ma l’incredulità dei suoi compaesani i quali non vedono in Gesù il Figlio di Dio, ma solo «il falegname».

I fratelli di Gesù

L’annosa questione dei fratelli e delle sorelle di Gesù sarebbe un problema del tutto marginale se non fosse collegato alla perpetua verginità di Maria, che già nella seconda parte del II secolo cominciava a imporsi. I fratelli di Gesù diventano cugini10 o fratelli non uterini di Gesù (cioè figli di Giuseppe ma non di Maria). Invece è molto più plausibile pensare che siano fratelli e sorelle carnali, nati da Maria.

La teologia cattolica riconosce che la verginità di Maria post partum può richiamarsi solo alla ratio theologicae convenientiae, perché la mancanza di una documentazione biblica autorevole viene sostituita dalla «convenienza teologica».

Un detto attribuito a Duns Scoto Giovanni, filosofo e teologo del XIII secolo, sarebbe alla base di questo dogma: Deus potuit, decuit, igitur fecit (Dio avrebbe potuto farlo, avrebbe dovuto farlo e quindi lo fece). Oggi sono ormai pochi gli studiosi cattolici che attribuiscono validità a questo ragionamento. Nel medioevo, non fu difficile giungere alla conclusione che il grembo materno che servì per concepire la Parola incarnata doveva essere riservato esclusivamente a Gesù e quindi non poteva essere condiviso da altri, né prima né dopo. Era meno facile desumere che il grembo di Maria doveva essere preservato da ogni danno di sorta, come se il parto potesse «danneggiare» gli organi femminili della riproduzione. Ne consegue l’idea che per meglio preservare quel grembo è preferibile che tali organi non siano mai usati per lo scopo biologico.

A questo punto si può intravedere l’influsso di qualche forma gnostica e non occorre scomodare la convenienza teologica per scoprire che nei primi secoli dell’era cristiana esistevano delle forme di gnosticismo che consideravano, con un certo radicalismo, la sessualità come qualcosa di impuro e peccaminoso.

Maria, madre e vergine, un modello impossibile, impersonerebbe il più alto ideale della realizzazione femminile, secondo la gnosi. Il gesuita John McKenzie giunge alla seguente conclusione: «Si può concludere che una credenza che ha tali dubbie connessioni (con la gnosi) richiede più prove che il ritenere che il concepimento e la nascita di Gesù debbono essere stati qualcosa di diverso dal normale processo umano».11 L’evangelista Marco non trova scandaloso che Gesù abbia potuto avere fratelli e sorelle; il fatto che Maria non fosse più vergine dopo il parto, non costituiva un problema o un ostacolo per la fede dei primi cristiani. Per essi Gesù è veramente il Cristo, il Figlio di Dio. Marco stesso, che insiste a presentare l’umanità di Gesù e accenna alla sua divinità come a qualcosa di non evidente ma percepibile solo con la fede, sembra che voglia rassicurare il lettore insistendo sulla «normalità» di Gesù fratello di Giacomo, Giuseppe, Giuda e Simone; egli appartiene in tutto e per tutto al genere umano.

Chi è Maria, madre di Giacomo e di Iose?

«Alcune donne erano là e guardavano da lontano: c’erano Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo (il più giovane) e di Ioses, e anche Salome» (Marco 15:40 Tilc).

Dal brano di Marco 6 sappiamo che Maria è la madre di Gesù e che Giacomo, Iose, Giuda e Simone sono fratelli di Gesù. Alla croce tre donne guardano da lontano: Maria Maddalena, Maria madre di Giacomo e di Iose, e Salomè. La strana coincidenza è che Giacomo e Iose sono nell’elenco dei fratelli di Gesù (cfr. Marco 6), la cui madre si chiama appunto Maria. Elian Cuvillier, professore della facoltà teologica di Montpellier, ritiene che sia la madre di Gesù.12 L’ipotesi è plausibile ma è comunque strano che Marco definisca Maria, ai piedi del figlio morente, come «madre di Giacomo e di Iose», e perché avrebbe omesso Giuda e Simone? È possibile che si tratti di nomi molto comuni che si possono riscontrare facilmente in famiglie diverse.

In ogni caso è alla croce che Maria smette di essere la madre biologica e diventa «la madre» come aveva inteso Gesù: «Chiunque avrà fatto la volontà di Dio, mi è fratello, sorella e madre» (Marco 3:35). Maria quindi è colei che non ha capito subito il senso della missione di Gesù e seppure tra tentennamenti, incertezze e dubbi, la fede ha aperto un varco nel suo cuore e lo ha accettato non più come figlio ma come suo Signore. Non abbiamo molte informazioni, l’autore del secondo vangelo non è generoso circa la madre di Gesù ed è molto più interessato a testimoniare in quale modo uomini e donne del suo tempo abbiano vacillato tra incredulità e fede, per concludere con l’affermazione sublime messa in bocca al centurione romano, un non ebreo: «Veramente, quest’uomo era Figlio di Dio!» (Marco 15:39).

Note

1 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano, 1976, p. 518.

2 Shalom Ben-Chorin, «La madre di Gesù in prospettiva giudaica» art. apparso in Concilium 8/1983, Queriniana, Bologna, p. 52.

3 «Nel vangelo (di Marco), i parenti di Gesù sono introdotti nel racconto in un modo piuttosto negativo abbastanza presto… Sembra che il problema fosse questo: il grande successo di Gesù nelle guarigioni e nella predicazione attraeva a lui enormi folle che gli impedivano perfino di mangiare. La situazione era talmente fuori controllo che alcuni cominciavano a sostenere che Gesù fosse matto o posseduto da un demonio» La Bibbia delle donne, a cura di C. Newsom e S. Ringe, vol. 3, Claudiana, Torino, 1999, p. 43. «I suoi fratelli vennero a conoscenza… dell’accusa dei farisei secondo cui cacciava i demoni con il potere di Satana. E sentirono che la parentela con Gesù costituiva un pericolo per la loro reputazione. Seppero dell’agitazione prodotta dalle sue parole e dalle sue azioni; si allarmarono per le sue dichiarazioni esplicite e si indignarono per le accuse che rivolgeva agli scribi e ai farisei. Allora decisero, con la persuasione o con la forza di indurlo a cambiare modo di agire, e convinsero Maria a unirsi a loro per far leva sul suo amore filiale e indurlo a una maggiore prudenza» Ellen G. White, La speranza dell’uomo, Edizioni Adv, Impruneta, 2002, p. 236.

4 La Bibbia delle donne, p. 43.

5 R. Schnackenburg, Vangelo secondo Marco, vol. 1, Città nuova editrice, Roma, 1973, p. 94.

6 La Bibbia delle donne, p. 44.

7 R. Schnackenburg, op. cit., p. 99.

8 Ibid., p. 141.

9 E. Cuvillier, Maria chi sei veramente?, Claudiana, Torino, 2002, p. 26.

10 Eppure nel Nuovo Testamento si conosce il termine «cugino». In Colossesi 4:10, Marco viene definito «cugino di Barnaba».

11 J. McKenzie, «La madre di Gesù nel Nuovo Testamento», in Concilium, XIX (1983) n. 8, p. 36.

12 E. Cuvillier, op cit., pp. 27,28. «È proprio Maria la madre di Gesù? Due indizi ci spingono a optare per questa ipotesi. Innanzi tutto l’elenco dei figli della donna: Giacomo il minore e Iose (Marco 14:40 e 6:3). Quindi la menzione esplicita dell’evangelista Giovanni sulla presenza di Maria, madre di Gesù ai piedi della croce (Giovanni 19:25-27). Si tratta quindi della stessa Maria. Una donna che ha infine accettato pienamente la missione di suo figlio poiché, nel versetto che segue, Marco indica che era una di quelle che “lo seguivano e lo servivano da quando egli era in Galilea” (Mc 14:41)».

Giovanni scrive per ultimo. Il suo vangelo è più una riflessione teologica tardiva. Egli si rivolge ai credenti di seconda e terza generazione, quelli cioè che hanno creduto sulla base della testimonianza dell’apostolo. Nel quarto vangelo, Gesù raramente tocca, impone le mani, prende per mano i malati e i moribondi. Anzi, la guarigione avviene a distanza come nel caso del figlio dell’ufficiale reale (Giovanni 4:50).

Lo stesso cieco nato, sui cui occhi il Maestro ha messo un po’ di terra con la saliva, deve accogliere la parola di Gesù e andare per fede a lavarsi alla fontana di Siloe; la sua guarigione avviene quando Gesù non è presente. Giovanni scrive per incoraggiare la sua chiesa esposta alle persecuzioni e forse scoraggiata per la scomparsa, a breve, dell’ultimo dei discepoli di Gesù. La parola di Gesù è tanto potente quanto la sua presenza fisica.

Anzi, qualche volta è accaduto che coloro che hanno visto i miracoli e udito le parole di Cristo non hanno sempre compreso i suoi discorsi. Il sermone sul pane della vita ha scandalizzato gli uditori, i quali se ne sono andati dicendo: «Questo parlare è duro, chi può ascoltarlo?» (Giovanni 6:60). Neppure il giorno precedente, durante la moltiplicazione dei pani e dei pesci, avevano capito, perché lo volevano acclamare come un re. Essi potevano vedere e ascoltare Gesù ma non riuscivano a capire la portata delle sue parole.

In Giovanni inoltre sono del tutto assenti le parabole (a eccezione della similitudine del buon pastore del capitolo 10). I fatti descritti diventano per Giovanni, semita fino in fondo, parabole viventi illustrate: basta vedere per esempio il racconto di Nicodemo, della donna samaritana, della donna adultera, ecc. Si tratta di pretesti per trasmettere degli insegnamenti: la nuova nascita e l’opera dello Spirito Santo, la vera adorazione in spirito e verità, nessuna condanna per chi crede in lui.

Le due scene in cui compare Maria, la madre di Gesù, si inseriscono in questo contesto. È presente alle nozze di Cana, dove il figlio compie il primo miracolo che segna l’inizio del suo ministero pubblico, e alla croce accanto al discepolo benamato.

L’ora mia non è giunta

«Due giorni dopo ci fu un matrimonio a Cana, una città della Galilea. C’era anche la madre di Gesù, e Gesù fu invitato alle nozze con i suoi discepoli. A un certo punto mancò il vino. Allora la madre di Gesù gli dice: “Non hanno più vino”. Risponde Gesù: «Donna, che vuoi da me? L’ora mia non è ancora giunta”. La madre di lui dice ai servi: “Fate tutto quello che vi dirà”. C’erano lì sei recipienti di pietra di circa cento litri ciascuno. Servivano per i riti di purificazione degli ebrei. Gesù disse ai servi: “Riempiteli d’acqua!”. Essi li riempirono fino all’orlo. Poi Gesù disse loro: “Adesso prendetene un po’ e portatelo ad assaggiare al capotavola”. Glielo portarono. Il capotavola assaggiò l’acqua che era diventata vino. Ma egli non sapeva da dove veniva quel vino. Lo sapevano solo i servi che avevano portato l’acqua. Quando lo ebbe assaggiato, il capotavola chiamò lo sposo e gli disse: “Tutti servono prima il vino buono e poi, quando si è già bevuto molto, servono il vino più scadente. Tu invece hai conservato il vino buono fino a questo momento”. Così Gesù fece il primo dei suoi segni miracolosi nella città di Cana, in Galilea, e manifestò la sua grandezza, e i suoi discepoli credettero in lui» (Giovanni 2:1-11 Tilc).

Il vangelo di Giovanni indica come primo segno miracoloso del ministero pubblico del Messia, il miracolo di Cana. Dove fosse situata Cana non è certo. Alcuni pensano a Chirbet Kana, a 14 chilometri a nord di Nazaret, dove effettivamente sono state trovate numerose cisterne vuote e case in rovina. Altri invece pensano a Kefr Kenna, a 5 chilometri a nord est di Nazaret, lungo la strada che da Nazaret porta a Tiberiade. Oggi è una ridente cittadina araba di circa 8.000 abitanti circondata da ulivi e fichi. Maria è invitata alle nozze forse di una sua parente o amica, e Gesù partecipa alla festa, con i suoi discepoli. Nel mezzo del festino viene a mancare il vino, forse il numero degli amici che costituivano l’allegra compagnia degli ospiti era superiore al previsto.

Maria se ne accorge e richiama l’attenzione di Gesù, il quale però rifiuta l’invito a provvedere. L’opposizione di Gesù era motivata dal fatto che sua madre si stava intromettendo in questioni che non la riguardavano ed egli la richiama all’ordine piuttosto bruscamente con un’espressione frequente nell’Antico Testamento.

«Che c’è fra me e te, o donna?»

«Ti emoi kai soi, gunai? «Che c’è fra me e te» è un detto conosciuto nell’Antico Testamento. Iefte si rivolge al re degli ammoniti con queste parole: «Che c’è tra me e te, perché tu venga contro di me a muover guerra al mio paese?» (Giudici 11:12 Cei). Quando il figlio della vedova di Sarepta si ammala gravemente al punto da temere per la sua vita, la madre si rivolge al profeta con queste parole: «Che c’è fra me e te, o uomo di Dio?» (1 Re 17:18 Cei). Quando nella pianura di Meghiddo, Giosia, il re di Giuda, volle attaccare l’esercito egiziano, il faraone gli inviò questo messaggio: «Che c’è fra me e te, o re di Giuda?» (2 Cronache 35:21 Cei). Nel Nuovo Testamento l’espressione è usata frequentemente nel dialogo tra Gesù e le persone possedute dai demoni. Siccome tra Gesù e i demoni non può esservi alcuna conciliazione, troviamo queste parole: «Che c’è fra noi e te, Gesù Nazareno?» (Marco 1:24, cfr. Luca 4:34); «Che c’è fra me e te, Gesù, Figlio del Dio altissimo?» (Marco 5:7; Luca 8:28); «Che c’è fra noi e te, Figlio di Dio?» (Matteo 8:29). In genere questa espressione può essere seguita solo da una risposta negativa. Rivolta a sua madre, questa parola può significare: «Che cosa vuoi da me?». Per quanto possa essere prezioso l’affetto materno, Gesù non è disposto a fare delle concessioni relative al suo ministero in nome della stretta parentela. Gesù ricorda a sua madre di non intromettersi nei tempi e nei momenti del disegno divino.

Gesù chiama sua mamma «donna»; lo stesso appellativo usato nell’episodio della croce e non può che essere un modo riguardoso e affettuoso di rivolgersi alla madre, ma mantiene, secondo Strathmann «una certa intima estraneità». «Il nome “donna” non ha nulla di sconveniente o che possa ferire; tuttavia esso astrae dal rapporto di pietà esistente tra Gesù e sua madre e fa intravedere una certa intima estraneità».1

«L’ora mia non è giunta»

La domanda intempestiva di Maria implicava un’anticipazione dell’ora di Cristo segnata nel proposito di Dio. Ella desiderava che Gesù manifestasse in quella circostanza la sua messianicità ma non era ancora giunto il momento per un simile annuncio.

Quando Gesù annuncia pubblicamente di essere il Messia promesso (Matteo 21:1,2), di lì a poco viene crocifisso (cfr. Matteo 26:63-65; Luca 23:2; Giovanni 19:7). Inoltre, è dal Padre che il Figlio prende gli ordini; per questo è venuto ad abitare tra gli uomini: per compiere la volontà del Padre. Ogni mattina lo cerca nella preghiera e nel raccoglimento (Marco 1:35; Luca 6:12). «L’ora mia non è ancora giunta», è un’espressione solenne in bocca a Gesù; si comprende che la «sua ora» è il termine stabilito da Dio per la sua morte e la sua glorificazione. In Giovanni, «l’ora» ricorre 26 volte e indica un tempo significativo e non soltanto un tempo cronologico. Qualche volta l’ora «è già venuta» (cfr. 2:23, 27; 13:1; 17:1) e qualche volta deve ancora venire (cfr. 2:4; 4:21, 23; 5:25,28, 29; 7:30; 8:20; 16:2, 25, 32). In alcuni casi «l’ora» rappresenta il momento della sua morte e in altri la manifestazione della sua gloria nell’immediato presente. Di quale «ora» sta parlando Gesù? Certamente della manifestazione in gloria, come è detto nella conclusione dell’episodio (v. 11). Interpretare «l’ora» come il momento per fare miracoli vuol dire trovare un senso sconosciuto all’evangelista e scontrarsi con il controsenso derivato dalla realizzazione immediata del miracolo. Maria capisce e si ritira in buon ordine.

«Fate tutto quel che vi dirà»

La madre si ritira in buon ordine. Comprende che i suoi desideri possono essere realizzati solo se coincidono con la volontà di Cristo e del Padre, che la missione di ogni discepolo è quella di compiere ciò che il Maestro ordina di fare. Maria si affida al volere di Cristo e non viceversa. Così inizia il punto centrale del racconto. Gesù chiede di riempire sei gigantesche giare di pietra utilizzate per la «purificazione dei giudei», della capacità di oltre cento litri per un totale complessivo di circa sei ettolitri di acqua. I sei vasi di pietra, ricavati da enormi blocchi, erano costosi e non dovevano servire solo per il rituale delle mani prima e dopo i pasti (cfr. Matteo 15:2). A che cosa serviva questa enorme quantità di acqua? Siccome poi, in mezzo al trambusto della festa, l’approvvigionamento di 600 litri d’acqua passa quasi inosservato, almeno così pare dal racconto, molti commentatori hanno letto questo episodio in chiave simbolica: il messaggio di Cristo (vino buono e abbondante) si manifesta fin dall’inizio in contrasto con la sinagoga (acqua per la purificazione).

Manifestazione della sua gloria

«Gesù fece questo primo dei suoi segni miracolosi in Cana di Galilea, e manifestò la sua gloria, e i suoi discepoli credettero in lui» (Giovanni 2:11). Con questo «primo» miracolo dell’acqua mutata in vino Gesù ha manifestato la sua gloria. Il segno (semeia) quindi è l’opera miracolosa che porta a far conoscere la missione messianica di Gesù. Il Signore onnipotente accompagna il suo servo umile; le sue parole e le sue azioni sono la manifestazione della sua potenza divina. La reazione dei discepoli ne era la conseguenza: essi credettero in lui. Il mutare dell’acqua in vino, «buono» e non «scadente», è il simbolo del sopraggiungere del tempo della salvezza. «Nella profusione di quel vino Gesù si rivela come l’iniziatore e l’artefice del tempo messianico».2

Con il Messia la vita acquista un sapore nuovo, la religione si libera dai condizionamenti della tradizione, la spiritualità scopre la freschezza e la bontà di un messaggio antico e dimenticato. «Il racconto delle nozze di Cana simboleggia per l’evangelista l’inizio dell’adempimento delle promesse di Dio: trasformando l’acqua dei vasi della purificazione degli ebrei in vino di festa, Gesù offre, a chi vuole credere, il vino nuovo del banchetto delle nozze messianiche. Questo primo segno di Gesù funge da cerniera fra la speranza ebraica e la novità che egli reca. Rende evidente che il Rivelatore si presenta d’acchito come colui che realizza tutte le attese dei profeti».3

Maria avrebbe voluto avere una parte attiva in questa opera ma deve accontentarsi, come discepola, di sottostare al suo buon volere.

La scena della croce

«Presso la croce di Gesù stavano sua madre e la sorella di sua madre, Maria di Cleopa, e Maria Maddalena. Gesù dunque, vedendo sua madre e presso di lei il discepolo che egli amava, disse a sua madre: “Donna, ecco tuo figlio!”. Poi disse al discepolo: “Ecco tua madre!”. E da quel momento, il discepolo la prese in casa sua» (Giovanni 19:25-27).

Solo Giovanni e forse Marco ci ricordano che Maria era «presso» la croce, mentre suo figlio stava per morire. I vangeli sinottici non menzionano la presenza di Maria e parlano di un gruppo di donne proveniente dalla Galilea che guarda «da lontano» (cfr. Marco 15:40, 41; Matteo 27:55, 56 e Luca 23:49). Senza ambiguità gli evangelisti dicono che tutti i discepoli erano fuggiti e che erano assenti quando Gesù morì, tuttavia i sinottici, con l’eccezione forse di Marco, non menzionano la presenza di Maria. Alcuni teologi pensano addirittura che l’episodio di Maria alla croce possa essere una «ricostruzione teologica»4 di Giovanni.

L’episodio è stato definito impropriamente la «scena dell’adozione» e rivela ancora una volta, probabilmente, un rapporto carico di tensioni tra Gesù e la sua famiglia. Perché Gesù affida sua madre a Giovanni? Le ipotesi sono molteplici. I commentatori cattolici vedono in questo episodio una prova della perpetua verginità di Maria, in quanto ella, non avendo altri figli oltre a Gesù, viene affidata alle cure amorevoli di Giovanni, il discepolo più giovane. Altri invece mettono in risalto il perfetto discepolato di Giovanni e l’eccellente maternità di Maria, che in questo modo diventa «madre» di ogni discepolo. Ma è proprio questo il senso del brano? Qualcun altro ha spiegato questo episodio partendo da una motivazione morale di Gesù, preoccupato per la sorte di sua madre nel momento cruciale della crocifissione. Un pensiero nobile dedicato a colei tramite la quale il Figlio dell’uomo è venuto in mezzo a noi, ma ci si chiede perché Gesù non si sia preoccupato di sua madre prima, perché ha aspettato questo momento così estremo? Infine i vangeli affermano che Gesù aveva fratelli e sorelle. Anche se il termine «fratello» può significare «cugino» ed è usato nel Nuovo Testamento per indicare non solo una relazione di parentela stretta ma anche in senso lato, rimane comunque il fatto che quando questo termine viene seguito da nomi propri come Giacomo, Giuseppe, Giuda, Simone5 (cfr. Marco 6:3), difficilmente non indica un rapporto diverso dalle relazioni strette di parentela e quindi va inteso come designazione di «fratelli carnali» di Gesù. Tuttavia, ammettendo pure che Gesù non avesse «fratelli carnali», cosa alquanto difficile da dimostrare, Maria comunque non era sola, perché proprio lì alla croce era accompagnata da sua sorella, la zia di Gesù (v. 25). Perché allora Gesù affida Maria a Giovanni? Il Messia prende ancora una volta le distanze dai suoi familiari, infrangendo così definitivamente il legame con i fratelli, dei quali è detto che non credevano in lui (Giovanni 7:5). Questa è la scena del distacco dalla madre e dalla sua famiglia, ma che allo stesso tempo allarga la famiglia alla chiesa. Maria diventa un membro dell’ecclesia, associazione dei credenti che accettano Gesù quale Signore e Salvatore.

Il vangelo di Giovanni non contiene alcun elemento per giustificare il culto mariano, ne contiene moltissimi invece per centrare il culto sulla persona di Gesù. Se l’ebraismo al tempo di Gesù e dell’Antico Testamento univa la gloria di Dio al tempio di Gerusalemme, il quarto evangelista compie un cambiamento radicale nel rapporto con il sacro e supera il retaggio arcaico della spazialità sacrale.

La grande idea del vangelo di Giovanni è che «Cristo è il nostro luogo di culto».6

Alla donna samaritana Gesù dice: «L’ora viene che né su questo monte né a Gerusalemme adorerete il Padre… i veri adoratori adoreranno il Padre in spirito e verità» (Giovanni 4:21, 23). I veri adoratori quindi sono nati dallo Spirito Santo (3:1-8) e sono santificati dalla parola di verità (17:17); non è previsto altro orizzonte che questo. Non è possibile costruire sulla frase «ecco tuo figlio/ecco tua madre» quella complessa pratica reverenziale verso la figura di Maria che si è sviluppata a partire dal V secolo, fino ad arrivare al culto mariano odierno, accompagnato da forme parossistiche inquietanti non solo per gli evangelici, ma anche per l’episcopato cattolico e per le comunità di base maggiormente preoccupate di riscoprire una fede più evangelica e più libera dai condizionamenti della tradizione.

Note

1 H. Strathmann, Il vangelo secondo Giovanni, Paideia, Brescia, 1973, p. 101.

2 J. Jeremias, Le parabole di Gesù, Paideia, Brescia, 1973, p. 145.

3 E. Cuvillier, Maria chi sei veramente?, Claudiana, Torino, 2001, p. 51.

4 Per John McKenzie non ci sono dubbi, «dobbiamo considerare le parole di Gesù a Maria e al discepolo amato come una costruzione teologica di Giovanni» (J. McKenzie, «La madre di Gesù nel Nuovo Testamento», in Concilium, XIX (1983) n. 8). Giuseppe Barbaglio, teologo cattolico e docente di esegesi del Nuovo Testamento, ritiene che la pericope giovannea è sconosciuta alle altre testimonianze neotestamentarie, la cui storicità è oggetto di discussione. La scena della croce prefigura una situazione post-pasquale, cioè la nascita della chiesa. «In questa nuova famiglia, maternità e figliolanza assumono significati spirituali di mutuo amore. Così ancora una volta sembra che Maria sia piuttosto figlia della chiesa, che non madre; tuttavia fa parte della cerchia dei discepoli di Cristo» G. Barbaglio, «Maria nel Nuovo Testamento» in Maria, nostra sorella, Edizioni Com-Nuovi Tempi, Roma, 1988, p. 59. La «ricostruzione teologica» di Giovanni non indica che l’evento descritto sia falso, ma è il tentativo di renderlo comprensibile, tenendo conto delle mutate condizioni storiche. Un esempio di ricostruzione storica potrebbe essere la presentazione del pensiero e della biografia di Martin Lutero in opere scritte da autori cattolici dopo il Concilio di Trento, paragonate con altrettante opere scritte alla fine del XX secolo. Se prima ci si soffermava maggiormente sui difetti e gli eccessi del riformatore tedesco, dopo un secolo dedicato al dialogo, Lutero viene presentato come un credente sincero, animato da propositi nobili. Ecco questa è una ricostruzione «storica», e non vuol dire che i fatti siano stati stravolti o inventati.

5 Marco 6:3; 13:55; Galati 1:19 «Giacomo fratello del Signore»; Atti 1:14 «Tutti costoro perseveravano di pari consentimento nella preghiera, con le donne e con Maria, madre di Gesù e con i suoi fratelli».

6 O. Cullmann, «Il posto dell’evangelo di Giovanni nel mondo ambiente e nella comunità primitiva» in Protestantesimo, Anno XXX, n. 2/1975, p. 75.

 

Conclusione

La Maria dei vangeli è una donna, cui è successo qualcosa di grande, forse troppo grande, e che non ha capito subito la portata dell’evento. In lei la luce è penetrata poco per volta; la sua conversione è passata attraverso rifiuti e consolidamenti, accettazione passiva e ribellione. Piano piano, ha lentamente capito che in Cristo vengono rotti tutti i legami di stretta parentela, perché chi ascolta la sua parola e osserva la sua volontà entra a far parte della famiglia di Gesù (cfr. Luca 8:21), dove non ci sono né mai ci saranno preferenze, nepotismi, gerarchie e privilegi. Maria ha compreso lentamente che non doveva aspettarsi un trattamento di preferenza rispetto agli altri discepoli. Ma per prima cosa doveva capire che Gesù non era più suo figlio, ma il suo Signore e il suo Salvatore, e solo dopo avrebbe potuto entrare nella comunione della chiesa. Padri, madri, figli, sorelle, fratelli, cioè i vincoli carnali più stretti e più profondamente legati fra loro, non sono nulla nei confronti della realizzazione della comunione fraterna nella chiesa, intesa come famiglia di Dio. «Maria è la madre di Gesù: essere umano, non creatura celeste. Come essere umano e come madre, è testimone dell’autentica esistenza umana del figlio, ma anche della sua origine radicata in Dio. In considerazione di ciò venne in un secondo tempo elevata a genitrice del Cristo, anzi a genitrice di Dio (madre di Dio)».1 Il Nuovo Testamento non si concentra sulla figura di Maria, non fornisce dettagli storici, non sappiamo chi siano i suoi genitori, non viene neppure ricordato il momento della sua morte. Eppure quella sua discrezione, sottomissione, umiltà, disponibilità e fede, e quei suoi dubbi, incertezze, tentennamenti ci presentano un quadro sufficientemente ampio per poter dire che questa è la vera «apparizione» di Maria; il personaggio ne esce arricchito; è una figura che si rende familiare, proviamo simpatia per Maria di Nazaret.

Che cosa è successo all’umile fanciulla di Nazaret? Come è avvenuto che la «serva del Signore» sia potuta diventare «la regina del cielo»? Siamo in presenza della stessa persona oppure di un’altra? La trasformazione è avvenuta e lo spettacolo che ne esce non è incoraggiante. Perché «Maria di Roma» è più difficile da capire?

Nota

1 H. Küng, Essere cristiani, Mondadori, Milano, 1976, pp. 519, 520.

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