Buone Notizie #11

SUPPLEMENTI PER LA LETTURA E L’APPROFONDIMENTO

GEENNA

di Antonio Caracciolo

(dal libro AA.VV., Dizionario di dottrine bibliche, edizioni ADV, Falciani Impruneta FI, 1990)

Il greco geénna viene dall’aramaico gehinnam, che a sua volta deriva dall’ebraico gehinnom, «valle di Hinnom» (Giosuè 15:8), abbrev. di ge- ben-Hinnom, «valle del figlio di Hinnom» (Giosuè 18:16) o ge-bne- Hinnom, «valle dei figli di Hinnom» (2 Re 23:10). Secondo i vangeli, la geenna è il luogo del castigo finale dei peccatori.

  1. Localizzazione geografica. Gehinnom o Ge-ben-Hinnom è il nome di una depressione a sud e sud-ovest di Gerusalemme identificata con l’odierno Wadi er Rababi. Poiché questo luogo si chiamava così già al tempo della conquista israelitica del Canaan (Giosuè 15:8), si deve arguire che Hinnom fosse il nome di un cananeo che poteva essere stato il proprietario di quel terreno. Dopo la conquista israelitica, la valle di Hinnom segnò per un tratto la linea di confine tra Giuda e Beniamino (Giosuè 15:8; 18:16).
  1. Vicende storiche. Al tempo dei re di Giuda, in un punto di questa valle – probabilmente alla confluenza con la valle del Kidron – sorse un santuario all’aperto dedicato al culto fenicio di Moloc, un tofet, per usare il termine tecnico biblico e cananeo. Questo culto pagano incentrato sul sacrificio umano era stato espressamente e severamente vietato ai figli d’Israele (Numeri 18:21; 20:1-5), ma nell’ VIII sec. a.C. re Achaz sacrificò a Moloc uno dei suoi figli nel tofet della valle di Hinnom (2 Re 16:3; 2 Cronache 28:3), e così pure suo nipote Manasse (2 Re 21:6; 2 Cronache 33:6). Il profeta Geremia condannò duramente i sacrifici umani che si praticarono nella valle di Hinnom (Geremia 32:35) e predisse che a causa di quei riti abominevoli la valle sarebbe divenuta un luogo di massacri e un cimitero (Geremia 7:31,32; 19:1-11). Re Giosia, per estirpare quel culto orribile, contaminò il santuario pagano nella valle di Hinnom (2 Re 23:10). Geremia chiama «la valle dei cadaveri e delle ceneri» (Geremia 31:40) quel luogo maledetto presso il torrente di Kidron, dalla qual cosa si può arguire che esso divenne un luogo dove si ammassarono e si bruciarono i rifiuti e le carcasse degli animali.
  1. Gehenna nell’escatologia popolare giudaica e nella predicazione di Gesù. Nelle invettive di Geremia contro l’infame culto di Moloc, la valle dei figli di Hinnom che vi è associata, già appare come un luogo esecrabile e simbolo di maledizione e di giudizio (Geremia 7:32-34; 19:6-9). L’escatologia tardo-giudaica ha accentuato questo senso teologico che la predicazione profetica aveva fatto scaturire dalla valle del tofet. Secondo l’Apocalisse giudaica di Enoch (II o I sec. a.C.) la valle di Hinnom sarà il luogo dove Dio punirà gli empi sotto gli occhi dei giusti che saranno sul monte di Sion. Nella letteratura rabbinica il luogo del castigo è immaginato come una caverna profonda piena di fuoco nella quale saranno tormentati i Giudei apostati. Nel II Esdra (fine del I sec. d.C.) la fornace della gehenna è contrapposta al paradiso di delizie, e per la Mishnah (tran. Pirke Aboth, 1,5, v. 19), la gehenna è il destino finale dei malvagi.

Gesù, quando parlò del giudizio avvenire e del castigo degli empi, si adeguò, per farsi capire, alla mentalità e al linguaggio popolari del suo tempo: nell’aldilà il ricco è nel tormento del fuoco, mentre il povero Lazzaro è nel seno di Abramo (Luca 16:22- 24); chi avrà vituperato il proprio fratello «sarà condannato alla geenna del fuoco» (Matteo 5:22); meglio sarebbe perdere uno o più organi del corpo che finire tutto intero nella geenna (Matteo 5:29 up, 30 up; 18:9; Marco 9:43,45,47); non solo il corpo, ma anche l’anima può perire nella geenna (Matteo 10:28). Nelle invettive all’indirizzo degli scribi e dei farisei, Gesù, per significare che costoro avviano alla perdizione ogni proselito guadagnato alla loro causa, dice che ne fanno un «figlio della geenna» (Matteo 23:15). E dopo averli flagellati impietosamente, domanda in tono di sfida agli ipocriti capi religiosi d’Israele come potranno scampare «al giudizio della geenna» (Matteo 23:33).

Come nella tradizione popolare giudaica, anche nella predicazione escatologica di Gesù il fuoco appare spesso associato al castigo finale dei peccatori. Chi non fruttifica alla gloria di Dio è come un albero selvatico che viene «tagliato e gettato nel fuoco» (Matteo 7:19); colui che avrà fatto oltraggio al fratello «sarà condannato alla geenna del fuoco» (Matteo 5:22); nel giorno del giudizio gli angeli raccoglieranno dal suo regno gli operatori d’iniquità «e li getteranno nella fornace del fuoco» (Matteo 12:42); chi non dimora in lui è come un tralcio infruttifero che si taglia e si getta nel fuoco (Giovanni 15:6). L’escatologia apocalittica è nella stessa linea: il fuoco sarà l’agente del castigo per gli adoratori della bestia nel giorno del giudizio (Apocalisse 14:10); lo «stagno di fuoco e zolfo» sarà il luogo del castigo per la Bestia e i peccatori (Apocalisse 20:15; 21:8) e per la Bestia, il Falso profeta e il Diavolo (Apocalisse 19:19; 20:10).

Sia nei Vangeli che nell’Apocalisse, il fuoco del giudizio ultimo sembra non avere mai fine. Giovanni Battista dice di colui del quale egli è il precursore che brucerà la pula «con fuoco inestinguibile (Matteo 3:12; Luca 3:17). Gesù pure allude al castigo finale con identica espressione (Marco 9:43) o con espressioni analoghe come: «geenna dove il verme loro non muore e il fuoco non si spegne» (Marco 9:47,48), «fuoco eterno» (Matteo 18:8; 25:41), «punizione eterna» (Matteo 25:46). L’Apocalisse si esprime in termini molto simili. In 14:11 si dice degli adoratori della bestia che «il fumo del loro tormento sale nei secoli dei secoli» ed essi «non hanno requie né giorno né notte», e in 20:10 il Diavolo, la Bestia e il Falso profeta sono tormentati nel fuoco «giorno e notte nei secoli dei secoli». In tutti questi passi gli aggettivi «inestinguibile» ed «eterno» e le locuzioni avverbiali «nei secoli dei secoli», «né giorno né notte» e «giorno e notte», denotano continuità ininterrotta ma non necessariamente senza fine. In altri termini quelle espressioni non significano che il fuoco del castigo finale arderà per l’eternità e le sofferenze dei peccatori non avranno mai fine (dove sarebbe la misericordia di Dio?), bensì suggeriscono l’idea che nulla potrà estinguere il fuoco del giudizio ultimo finché non avrà consumato in modo totale e definitivo i malvagi i quali ne soffriranno il tormento finché non saranno annichiliti. Che il fuoco e le pene del giudizio non saranno eterni risulta con chiarezza dai passi seguenti: Ebrei 10:27, dove si dice che il fuoco del giudizio divino divorerà gli avversari; Apocalisse 20:9 dove il fuoco che scende dal cielo sulle nazioni che assediano la santa città le divora («divorare» in senso figurato nella Bibbia significa «consumare», «distruggere», «annientare»: vedi Levitico 10:2; Numeri 11:1; 16:35; 2 Samuele 11:25; Isaia 9:17; Geremia 46:10; Abacuc 1:13 ecc.). Inoltre 2 volte si dice nell’Apocalisse che lo stagno di fuoco del giudizio finale «è la morte seconda» (Apocalisse 20:14 e 21:8 up). Nella Bibbia come nel linguaggio corrente «morte» in senso fisico significa sempre e soltanto fine dell’esistenza.

Come mai dunque i Vangeli e l’Apocalisse usano in riferimento al castigo finale dei malvagi espressioni come «fuoco inestinguibile», «nei secoli dei secoli» e simili? La risposta è che tanto Gesù quanto Giovanni nel descrivere gli eventi escatologici hanno spesso improntato il loro linguaggio al linguaggio colorito e iperbolico dei profeti antichi. Isaia, per esempio predice la rovina di Edom col dire che i suoi torrenti «saranno mutati in pece, e la sua polvere in zolfo, e la sua terra diventerà pece ardente. Non si spegnerà né notte né giorno, il fumo ne salirà in perpetuo» (Isaia 34:9,10). Alla fine del libro, in uno splendido oracolo sulla restaurazione di Gerusalemme che anticipa la restaurazione escatologica, il profeta predice che gli eletti usciranno da Sion e vedranno i cadaveri dei ribelli e «il loro verme non morrà e il loro fuoco non si estinguerà» (Isaia 66:24). Geremia dal canto suo avverte gli spensierati abitanti di Gerusalemme che se non cesseranno di profanare il sabato, Yahweh accenderà un fuoco alle porte della città «ed esso divorerà i palazzi di Gerusalemme e non si estinguerà» (Geremia 17:27). Ovviamente gli incendi che hanno consumato le città di Edom e i palazzi di Gerusalemme all’epoca delle invasioni caldee si sono spenti da lungo tempo. È chiaro dunque che la «pece» di Edom che non si spegnerà né notte né giorno e il fumo che ne salirà in perpetuo, come pure il fuoco che divorerà Gerusalemme senza estinguersi e i cadaveri dei peccatori rosi fuori delle mura di Gerusalemme da vermi che non muoiono e bruciati da un fuoco che non si estingue sono espressioni metaforiche che significano che l’azione distruttiva degli agenti del giudizio divino non cesserà finché non avrà consumato completamente i peccatori, cioè sarà totale e definitiva. In altri termini sono espressioni che si riferiscono agli effetti del castigo divino, non alla durata.

Analogamente nell’escatologia del Nuovo Testamento le espressioni «fuoco inestinguibile» e «fuoco eterno» significano fuoco che non si spegnerà finché non avrà svolto appieno la sua azione distruttiva; e le frasi «nei secoli dei secoli» e «né notte né giorno» denotano continuità ininterrotta ma non eterna. L’eternità del castigo finale dei peccatori (Mt 25:46) si riferisce dunque agli effetti del castigo stesso, non alla durata. È esattamente con questo significato che l’apostolo Giuda usa nella sua breve epistola l’aggettivo «eterno» quando dice (v. 7) che Sodoma e Gomorra «sono poste come esempio, portando la pena di un fuoco eterno».

MORTE

di Giuseppe Marrazzo

(dal libro AA.VV., Dizionario di dottrine bibliche, Edizioni ADV, Falciani Impruneta FI, 1990)

Ebraico: harag, uccidere; muth, morire; mavet, morire; shakab, coricarsi dormire; greco: apokteinô, uccidere; teleutaô, finire morire; thanatos, morte; thanatoô, uccidere; thneskô, morire, da cui derivano apothneskô, morire, e sunapothneskô, morire assieme a qualcuno; thnetos, mortale; katheudô, dormire; koimaomai, dormire, addormentarsi; upnos, sonno; nekros, uccidere, al medio passivo significa morire; nekrosis, il morire.

1. La morte nell’Antico Testamento (AT)

Per l’AT la morte è separazione da Yahweh origine della vita (Salmo 6:6; 30:10; 88:611; Isaia 38:11). All’uomo non resta che accettare il comune destino della morte (Genesi 3:19 «polvere sei e polvere ritornerai»). Altrove è detto: «Noi siamo come acqua che, una volta versata per terra, non può più essere raccolta» (2 Samuele 14:14). La longevità è vista come fonte di contentezza e riconoscenza (Salmo 91:16; Genesi 15:15). La malattia e la miseria sono i «lacci della morte» (Salmo 116:3,8). Mentre la morte prematura è una maledizione e una punizione. Nell’AT non troviamo l’idea dell’eroismo di fronte alla morte. L’ebreo è rispettoso della vita e mai giunge a concepire il suicidio come mezzo per fare una «buona morte». Nel gesto di Saul, dopo la sconfitta e la morte dei figli, non c’è nessuna idea di fine eroica (1 Samuele 31).

La morte è intesa come la conseguenza estrema e ineluttabile di un rifiuto di Dio, di una scelta fatta contro Dio. Rifiuto che implica la perdita di contatto con Dio, fonte di vita e quindi la morte è in agguato come conseguenza (Paolo dice «il salario») del peccato (Romani 6:23). La morte fa la sua comparsa dopo il peccato di Adamo (Genesi 2:17; 3:19), non esiste l’idea del peccato originale, inteso come il naturale pagamento di una cambiale firmata da Adamo, ma ognuno ribellandosi appone la propria firma e contrae il debito (Ezechiele 18:21 ss).

L’esistenza delle ombre (sheôl) non è vita, la morte separa l’uomo da Dio. La morte è un «addormentarsi» (shakab = coricarsi, giacere a letto). «Addormentarsi accanto ai suoi padri» (2 Re 14:16; 22:29; 15:7,22,38; 2 Cronache 26:2,23…) vuole dire semplicemente «morire»; anche in Ezechiele 32:19 ss; Giobbe 14:12; Isaia 43:17; 50:11. È interessante notare che in ebraico si usa il verbo shakab (dormire) per gli oggetti inanimati, rende quindi, molto bene l’idea di una immobilità giacente. Con la morte l’uomo è ammassato nel mucchio, giace accanto ai suoi padri.

I morti non comunicano con il mondo dei vivi (Ecclesiaste 9:6). Essi dormono, sono in uno stato di incoscienza, «non conoscono nulla» (Ecclesiaste 9:5). La morte pone fine a tutte le attività tipiche dei viventi: lavoro, studio, preghiera, apprendimento (Ecclesiaste 9:10; Salmo 146:4). Lo stato di incoscienza rende inattive tutte le emozioni: niente più amore, né odio, né invidia… (Ecclesiaste 9:6). Il sonno indica un presupposto di transitorietà, implica un risveglio (Giobbe 14:15 cfr. Giovanni 5:28,29).

Spesso si citano dei salmi, nelle orazioni funebri, illudendosi che l’anima del defunto continui a vivere nell’eternità, niente di più inappropriato. Isidore Loeb si è dedicato allo studio dei salmi constatandovi quanto viene ignorato il concetto dell’anima immortale.

«I morti sono liberi da ogni preoccupazione, coricati nella tomba, Dio non ha alcun pensiero per essi (Salmo 88:6), non sanno niente e non possono più comprendere le meraviglie della Provvidenza (Salmo 88:13). Non è per loro che Dio governa il mondo (Salmo 88:11). Così, nella morte, il ricordo di Dio è perduto, nessuno potrà lodarlo (Salmo 6:6). Non sono i morti che lodano Dio né coloro che scendono nell’impero del silenzio e dell’oblio (Salmo 115:17; 88:11,12). Il povero vuole lodare Dio mentre è ancora in vita (Salmo 63:5; 104:33; 119:175). Non vuole morire, ma vivere per raccontare le grandezze di Dio (Salmo 118:17). Può la polvere lodare il Signore e raccontare le sue virtù (Salmo 30:10)? L’uomo è come un soffio che se ne va e non ritorna più (Salmo 78:39); il suo soffio lo lascia e ritorna alla terra da cui è stato tratto (Salmo 146:4)». (Isidore Loeb, «La Littérature des Psaumes dans la Bible» in Revue des Etudes Juives, Tome 46, p. 210, citato da J. Doukhan in Le judaisme et l’immortalité de l’àme, Collonges sous Salève 1967, p. 9).

Nell’AT il distacco dalla famiglia, dal popolo, che per molti versi era carico di dolore, di sofferenza, sentita e silenziosa, come sempre, avveniva nella calma e con il conforto dei cari, i figli, le figlie, i nipoti, basti vedere le cerimonie della benedizione finale (Genesi 49).

2. La morte nel Nuovo Testamento (NT)

Nel NT la morte ha un triplice significato: indica la morte biologica, l’annientamento finale e la morte spirituale.

a) Morte biologica. Come l’Antico anche il NT concepisce la morte come un riposo, un «sonno» (Giovanni 11:14; 1 Tessalonicesi 4:13-15; 1 Corinzi 15:18,20; 7:39; 15:16,51; Atti 7:60; 13:36; 2 Pietro 3:4); i morti dormono nell’incoscienza, aspettano l’evento finale, la resurrezione. Dio vuole che i credenti arrivino alla meta tutti insieme (Ebrei 11:39,40). Il termine nekros (morto) è sempre usato in relazione al verbo egheiro (svegliarsi) oppure è unito ad anastasis (risurrezione).

Tutto il ciclo vitale per l’uomo sembra esaurirsi con l’ultimo «sospiro», la morte sembra essere la naturale conseguenza del processo di invecchiamento che sfocia nella malattia e termina con la morte. L’uomo è un essere «mortale» (Romani 6:12; 8:11; 1 Corinzi 15:53,54; 2 Corinzi 4:11). Infatti, anche nel NT la vita dell’uomo è associata ad immagini che indicano transitorietà (vapore, vento… Giacomo 4:14). L’uomo non possiede naturalmente l’immortalità, la vita eterna non è ereditaria (1 Timoteo 1:17; 6:16; 1 Giovanni 5:11-13; 3:14,15; Romani 8:8,10). L’immortalità è promessa all’uomo tramite il suo nuovo capostipite, «l’ultimo Adamo» (1 Corinzi 15:45-57). Gesù Cristo è il garante della nostra speranza, è il ponte che unisce questa realtà presente a quella futura. L’uomo non possiede «la scintilla di eternità» dentro di sé, sottoforma di anima immortale. Infatti, sia nel giardino dell’Eden che nella nuova terra, i credenti alimenteranno la vita a partire da un elemento esterno a loro: l’albero della vita (Genesi 2:9; 3:24; Apocalisse 2:7; 22:2,14). Quando Gesù morì (Luca 23:46, vedi anche Stefano Atti 7:59,60) prima di spirare disse:

«Padre, nelle tue mani rimetto lo spirito mio» (cfr. Ecclesiaste 12:9); lo spirito che ritorna a Dio non continua a vivere la sua vita indipendentemente dal corpo. Che cosa, allora, ritorna a Dio? La vita! L’esistenza delle creature è una vita presa in prestito, alla fine Dio si riprende ciò che gli appartiene e l’uomo tutto intero ritorna alla polvere. Per molti questi testi sono consolatori, a prima vista potrebbero far pensare a una sopravvivenza dopo la morte, secondo noi ci presentano la morte con tutto il suo orrore, la sua tragicità; la morte è reale e completa. Gli uomini vogliono rendere il pensiero della morte sopportabile, minimizzando o negando la sua realtà; la Bibbia la considera «una nemica» (1 Corinzi 15:26); essa sarà vinta e sconfitta, ma è pur sempre una nemica (1 Corinzi 15:53-57).

Gesù ha affrontato la morte come si affronta un nemico (Matteo 26:37,38; Ebrei 2;14,15; 5:7). Egli era «contristato e angosciato», ha offerto «preghiere» e «supplicazioni» «con grida e lacrime». Era giusto che Gesù entrasse nel territorio nemico per soggiogarlo e vincerlo definitivamente: «Così, mediante la propria morte, ha potuto distruggere il demonio, che ha il potere della morte e ha potuto liberare quelli che vivevano sempre come schiavi, per paura della morte» (Ebrei 2;14,15).

«La morte non è più un terreno vietato a Dio o sottratto al suo potere; è stato conquistato da Gesù» (a cura di L. COENEN, Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, Bologna, 1976, p. 1059).

b) La morte seconda. La «morte seconda» è un’espressione che ricorre quattro volte nell’Apocalisse (2:11; 20:6,14; 21:8); descrive la fine di coloro che hanno rifiutato di fare la pace con Dio. Si tratta dell’evento opposto a quello della creazione. Alla creazione Dio fece scaturire «dal nulla» la vita, alla «morte seconda» tutti quelli che hanno rifiutato l’offerta di pace di Dio, che non hanno tenuto conto della grandezza dell’amore di Dio e del suo figliuolo Gesù Cristo, saranno dimenticati da Lui e ritorneranno alla non-esistenza (Apocalisse 20:14,15). Da questa morte non c’è resurrezione, le sue conseguenze sono eterne. Non siamo di fronte al famoso quanto orrendo inferno dove le anime dei dannati saranno tormentati con una «pena eterna».

I termini «eterno», «di secolo in secolo», «per sempre» traducono le espressioni ebraiche ‘olam e nesach e la parola greca aionos; in italiano possono anche suggerirci l’idea di qualcosa che dura sempre, nelle lingue orientali indicano piuttosto «finché qualcuno viva» o «fintantoché qualcosa esista» (Esodo 21:6; 1 Samuele 1:22; 2 Re 5:27; Giona 2:6, ecc.).

Dio riduce alla non-esistenza chi ha deciso nella sua vita di non riconciliarsi con Lui e nel fare così il Signore si presenta ancora come un Dio misericordioso. Se Dio d’autorità decidesse di restaurare nei malvagi la sua immagine, loro malgrado e quindi contro la loro volontà, non smetterebbe di essere il Garante della Libertà? Non ridurrebbe gli esseri umani ad essere tante marionette nelle sue mani? «(Dio) fa la cosa migliore che un Dio compassionevole possa fare: permette (all’empio) di essere come colui che non sia mai esistito» (E.G. WHITE, Premiers Ecrits, p. 276).

Esiste una via d’uscita a questo annientamento finale? Sì, adesso. Se Dio ti parla, oggi, non rifiutare il suo invito: cambia vita per essere «rigenerato» a nuova vita (Ebrei 3:7; Atti 2:38).

c) La morte spirituale. È la condizione dei morti viventi, che vivono ripiegati su se stessi, lontani dalla casa paterna in un’esistenza resa vana dall’egoismo e dal peccato. Il figlio spendaccione era considerato dal padre come « morto» e quando fece ritorno a casa era come se fosse «ritornato in vita» (Luca 15:24). «Morti nei peccati» (Efesini 2:1-3) è lo stato di quegli uomini che non conoscono Gesù e non hanno fiducia in Lui. «A causa dei nostri peccati eravamo senza vita ed Egli ci ha fatti rivivere insieme con Cristo» (Efesini 2:5). Quando la vita di un uomo viene rigenerata dalla grazia di Dio si apre verso gli altri e verso di Lui: «Amando i fratelli, noi sappiamo di essere passati dalla morte alla vita. Chi non ama dimora nella morte» (1 Giovanni 3:14). A un discepolo Gesù disse: «Lascia che i morti seppelliscano i loro morti. Tu invece va ad annunziare il regno di Dio» (Luca 9:60; Matteo 8:22). Qui, l’espressione «i morti» è usata la prima volta in senso spirituale e la seconda nel senso letterale, ciò vuol dire che i sordi all’invito di Cristo e i morti sono sullo stesso piano.

Attraverso il rito battesimale praticato per immersione si visualizza concretamente l’essere seppelliti nella stessa morte di Cristo e il risorgere verso una novità di vita (Romani 6:3,4).

3. Alcune riflessioni

a) La morte è il vero tabù che la società esorcizza come può. Le «funeral home» americane sono degli stupendi giardini e dei salotti finemente addobbati. II morto ben vestito e ben truccato ha ancora una parvenza di vita, sembra che stia offrendo l’ultimo suo ricevimento, il tutto si trasforma in lauti guadagni per le agenzie di pompe funebri. Ogni bambino conosce assai bene come funziona la propria sessualità, ma sa veramente poco sulla morte. I genitori non gliene parlano, né tantomeno se ne parla a scuola. Suzanne Molot (La mort dans les livres scolaires) afferma che i manuali scolastici editi tra il 1957 e il 1967 contenevano dal 15% al 25% dei testi che riguardavano la morte, ma dal ’67 in poi solo il 10% (sarebbe interessante aggiornare le statistiche alla situazione attuale).1

Per il bambino «il morto» è colui che cade, nello schermo televisivo, vittima di un colpo d’arma da fuoco o di un incidente. La morte dunque è astratta, insolita, assurda, inattesa e scandalosa. Al cinema non si muore mai di morte naturale e ciò è rassicurante perché trasforma in finzione quello che è il problema fondamentale per una coscienza e per l’intelligenza. Fin dalla preistoria, fin dall’antico Egitto, fin dalle culture più antiche la morte è uno scandalo, lo è ancora oggi. Forse è ancora più pesante! Più le ricerche progrediscono, più le ricerche sul cervello rivelano nuove frontiere, più l’umanità dovrebbe realizzare l’enorme perdita, sul piano individuale e sociale, che la morte arreca. «Quando suona la campana per un uomo, suona per l’umanità». Ogni giorno perdiamo una fetta di mondo, un universo di ricordi, di emozioni, di sensazioni, di lotte insieme a tutti gli uomini che ci lasciano. Ma ciò che è più disumano e folle è la morte di uomini e donne vittime della sopraffazione e della spirale della violenza.

b) La morte semina angoscia più che mai. L’ignoto, il mistero, l’incertezza sono stati e sempre saranno fonti di ansia per l’uomo. Il credente in Gesù Cristo affronta la morte serenamente. L’apostolo Paolo non è angosciato al pensiero della sua morte (Filippesi 1:21), la sua sicurezza non deriva dal fatto di credere di continuare a vivere dopo la morte, ma piuttosto l’unica sua certezza è sapere che Cristo ha calcato il sentiero della morte prima di Lui e che ancora una volta egli continuerà a seguire le «orme» di Gesù. Non teme come non è angosciato il bambino che per 10 ore resta chiuso nell’ascensore al buio per un black out di elettricità, tenendo la sua mano stretta in quella del suo papà.

c) La morte interroga noi vivi. Ci fa riflettere sulla fragilità dell’esistenza, ci invita a stabilire rapporti di amicizia, di comunione con gli altri. Il pensiero della morte deve renderci migliori, deve aiutarci a mettere ordine nella nostra vita, a ricercare il perdono, la riconciliazione.

«Ognuno sta solo sul cuore della terra trafitto da un raggio di sole: ed è subito sera».

Questi pochi versi di Salvatore Quasimodo, rivelano tutta la solitudine psicologica della vita, la vita senza senso che si amalgama con una storia atroce, fatta di crimini, di strazi, da una parte, ma dall’altra c’è la speranza di quel «raggio di sole» che trafigge, portatore di luce, di speranza.

Note

1 Sul Corriere della Sera dell’8 aprile 1988 in 70 necrologi si parla 35 volte di «scomparso», 18 di «mancato», 18 di «irreparabile perdita». Il vocabolo «morto» compare solo 4 volte. Morire è considerato ancora sconveniente (Luca Goldoni in Corriere della Sera, 28/4/88, p. 13).

Bibliografia sommaria

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COENEN, L., art. «Morte» in Dizionario dei Concetti Biblici del Nuovo Testamento, Dehoniane, Bologna, 1976, pp. 1033 – 1035 e pp. 1045-1050.

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KUBLER-ROSS, E., La morte e il morire, Cittadella Ed., 1984.

MENOUD, H.P., Dopo la morte: immortalità o resurrezione?, Claudiana, Torino, 1970.

MOLTMANN, J., La Teologia della speranza, Brescia, 1972.

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POZO, C., Teologia dell’al di là, Roma, 1971.

RICCA, P., Il cristiano davanti alla morte, Claudiana, Torino, 1978.

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SUBILIA, V., «Il Signore dei morti e dei viventi», art. apparso in Protestantesimo n. 1/1980, pp. 1-12.

RISURREZIONE

di Mario Maggiolini (adattamento Silvia Vadi)

(dal libro AA.VV., Dizionario di dottrine bibliche, Edizioni ADV, Falciani Impruneta FI, aprile 1990)

Shirley Barnett, un americano di 71 anni ex minatore, è «risuscitato» due volte nel corso della stessa giornata. Ricoverato il 16 gennaio 1988 all’Ospedale di Oak Ridge (Tennessee) per dolori al petto, il Barnett fu colpito da blocco cardiaco. Il polso inesistente e l’encefalogramma piatto convinsero i medici a staccare le apparecchiature che artificialmente lo mantenevano in vita. I familiari, avvertiti, pensarono ai preparativi per il funerale. Poco dopo un’infermiera si accorse che il «morto» aveva ripreso, anche se impercettibilmente, a respirare. Gli vennero riapplicati gli apparecchi per la stimolazione cardiaca, ma un’ora e mezzo dopo gli stessi familiari furono d’accordo con i medici di far staccare quelle apparecchiature per l’inutilità del tentativo di mantenere in vita il «risuscitato». Così fu fatto, ma a questo punto, tra la meraviglia dei presenti, il due volte morto, pian piano riprese vigore fino a recuperare tutte le sue facoltà. (L’episodio è riportato dal quotidiano «Il Giorno» del 4 marzo 1988).

La sua così chiamata «risurrezione» fa discutere ancora oggi i medici.

Non commentiamo la notizia… diciamo solo che è molto «raro» che una persona muoia «realmente» e poi torni in vita, se pensiamo alle decine e decine di milioni di esseri umani che ogni anno muoiono nel mondo, senza però risorgere dai morti.

1. Il grande interrogativo

Si è adoperato di proposito l’aggettivo «raro», perché si è a conoscenza di episodi in cui persone «realmente» morte sono «risorte» e sono riapparse «vive» tra i viventi ed altre ancora che non hanno conosciuto la morte.

E non è una contraddizione con quanto affermato sopra, perché questi fatti non hanno nulla a che vedere con le cosiddette «morti apparenti» o stati di «catalessi», in cui, per certe cause, i muscoli del corpo perdono la possibilità di contrarsi rendendo le membra rigide… né con le presunte apparizioni spiritiche. Si tratta, invece, di persone effettivamente tornate in vita, dopo che le loro «funzioni vitali» erano in realtà cessate da tempo. Ma allora, l’uomo che muore, può o no tornare a vivere? È il grande interrogativo di tutti i tempi, tanto vecchio eppur sempre attuale. Ed è lo stesso che, tremila anni fa, l’antico patriarca di Uz, Giobbe, poneva a se stesso, mescolandovi la speranza della fede e il dubbio della incredulità: «Se l’uomo muore, può egli tornare in vita?» (Giobbe 14:14 – testo ebraico).

2. Le risposte umane

La morte miete milioni di vittime ogni anno. Da una indagine risulta che nel mondo intero muoiono ogni minuto 70 persone, il che fa oltre 4.000 morti all’ora e più di 100.000 al giorno, per un totale superiore ai 35 milioni l’anno. Questa è la realtà, che ci piaccia o no. Sarà a 80 anni oppure a 10 o forse anche meno; sarà per malattia, vecchiaia o per disgrazia, la morte verrà colpendo inesorabilmente. Eppure o proprio per questo motivo, c’è in noi un anelito indistruttibile alla vita, un anelito che ci spinge ad agire pur di dare una risposta affermativa a questa grande domanda: «Se l’uomo muore, può egli tornare in vita?».

Dai riti scaramantici dei primitivi all’ultima «ibernazione» dell’uomo ancor prima di morire, è stata tutta una corsa contro il tempo e una lotta contro la morte. Ma con quali risultati? Si muore meno? Non si muore più? I materialisti non si pongono il problema. L’uomo, dicono, è materia, e come tale è destinato a finire per sempre all’ultimo suo respiro. A loro volta i sostenitori di certe dottrine filosofico-religiose propongono risposte diverse e contrastanti, come quella che vede nella «reincarnazione» la soluzione del problema, oppure l’altra, più diffusa e popolare nei paesi cristiani che, considerando l’anima immortale per natura, la rende automaticamente vittoriosa sulla morte, anche se con destini eterni diversi determinati dal comportamento in vita dell’uomo stesso.

In realtà queste credenze debbono molto alla filosofia pagana orientale e a quella greca che ha in Platone il suo maestro. Ma fino a che punto sono attendibili?

Allora, se la scienza tace circa la possibilità di un’altra vita dopo la morte, se l’annientamento eterno proposto dai materialisti ripudia ogni possibilità di vita futura, se le varie filosofie e credenze religiose, contraddittorie fra loro, non meritano la nostra fiducia… allora dove è la risposta? Esiste una risposta?

3. La risposta di Dio

Sì che c’è la risposta. È quella che proviene dall’Autore stesso della vita attraverso la sua Parola. È infatti Dio che ispira Giobbe, purificando la sua fede dalle scorie del dubbio, a rispondere affermativamente alla propria domanda. «Io so che il mio redentore vive, e nell’ultimo giorno io sorgerò dalla terra; e che nuovamente mi circonderò della mia pelle, e nella mia carne vedrò il mio Dio» (Giobbe 19:25,26 – Vers. del Cardinal Ferrari, Firenze 1929).

«Io sorgerò dalla terra», esclama Giobbe. La «risurrezione», dunque, è la risposta di Dio al grande universale eterno interrogativo degli uomini. La risurrezione, questo ritornare alla vita dopo la morte, è la conclusione di un preciso insegnamento biblico che può essere così riassunto:

  • Dio solo è immortale (1 Timoteo 6:15,16).
  • L’uomo, creato anima vivente, avrebbe potuto divenirlo (Genesi 2:7,15-17), ma a causa della caduta perse tale possibilità e introdusse nel mondo il principio della morte (Romani 5:12; 6:23; Ezechiele 18:4).
  • La morte sarebbe stata definitiva, eterna, se Cristo non avesse dato la sua vita per riscattare l’umanità (Giovanni 3:16).
  • La fede nel suo sacrificio espiatorio permette agli uomini di riacquistare la candidatura all’immortalità (1 Giovanni 5:11,12).
  • Questa immortalità, non naturale nell’uomo, ma dono di Dio ai giusti, sarà resa effettiva solo al momento della risurrezione (2 Corinzi 15:21,22; Romani 2:7; Luca 14:13,14).

Non esiste nella Sacra Scrittura una verità più chiara e di maggior vigore spirituale. Ecco perché Antico e Nuovo Testamento annunciano la risurrezione come fatto certo. La vediamo adombrata nella prima promessa messianica di Genesi 3:15 e la ritroviamo nell’esclamazione del profeta Isaia:

«Rivivano i tuoi morti! Risorgano i miei cadaveri! Svegliatevi ed esultate, o voi che abitate nella polvere! Poiché la tua rugiada è rugiada di luce e la terra ridarà alla vita le ombre» (Isaia 26:19). Anche Davide esprime questa certezza: «Quanto a me, per la mia giustizia, contemplerò il tuo volto; mi sazierò, al mio risveglio, della tua presenza» (Salmo 17:15). Questo straordinario intervento di Dio è ulteriormente sviluppato nella grandiosa visione delle «ossa secche» di Ezechiele (cap. 37) e nella profezia conclusiva di Daniele: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia» (Daniele 12:2).

Ma è nelle pagine del NT che la testimonianza biblica sulla risurrezione raggiunge tutta la sua pienezza. Al centro di tutte le dichiarazioni, quale perla di gran valore sta la dichiarazione di Gesù stesso: «Io sono la risurrezione e la vita» (Giovanni 11:25 pp). Chi più di lui potrebbe conoscere questa verità? «In verità, in verità vi dico: l’ora viene, anzi è già venuta, che i morti udranno la voce del Figlio di Dio; e quelli che l’avranno udita, vivranno. Perché come il Padre ha vita in se stesso, così ha dato anche al Figlio di avere vita in se stesso; e gli ha dato autorità di giudicare, perché è il Figlio dell’uomo. Non vi meravigliate di questo; perché l’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe udranno la sua voce e ne verranno fuori; quelli che hanno operato bene, in risurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in risurrezione di giudizio» (Giovanni 5:25-29).

Gesù riunisce in sé «risurrezione e vita». Egli possiede le chiavi della morte e le usa «…per consolare tutti quelli che sono afflitti; per mettere, per dare agli afflitti di Sion un diadema invece di cenere, olio di gioia invece di dolore» (Isaia 61:2,3). E lo dimostra risuscitando alcuni fra i morti: l’amico Lazzaro a Betania (Giovanni 11:11-44 e 12:9), il figlio della vedova di Nain (Luca 7:12-15), la figlia di uno dei capi della sinagoga Jairo (Matteo 9:23-25 e parall.).

Ma la prova irrefutabile, la sicura evidenza del suo potere sulla morte e, quindi, nel far risorgere quanti credono in lui, l’ abbiamo nella sua stessa risurrezione dal morti attestata dai Vangeli (Matteo 28; Marco 16; Luca 24; Giovanni 20) e confermata dai discepoli testimoni dei loro incontri con il Risorto: «Dio lo risuscitò, avendolo sciolto dagli angosciosi legami della morte, perché non era possibile che egli fosse da essa trattenuto» (Atti 2:24). Su queste testimonianze apostoliche poggia la veridicità della risurrezione di Cristo. Con Paolo (1 Corinzi 15:3-11) vogliamo elencarle:

  • la testimonianza di Pietro al quale Cristo apparve;
  • quella degli apostoli in preghiera la stessa sera della risurrezione; 3) la testimonianza di 500 credenti al quali il Risorto apparve;
  • la testimonianza di tutti gli apostoli;
  • quella stessa di Paolo, quando, sulla via di Damasco, Cristo risorto gli appare.

I quattro evangelisti riportano le sue apparizioni:

Matteo ricorda due apparizioni di Gesù risorto dai morti:

  • quella alle donne venute al sepolcro;
  • quella sopra una montagna della Galilea.

Luca ne cita quattro:

  • quella a Pietro;
  • quella ai due discepoli sulla strada di Emmaus;
  • quella al dodici discepoli la sera della risurrezione;
  • quella del giorno dell’ascensione.

Marco parla di tre apparizioni:

  • quella a Maria Maddalena;
  • quella al due discepoli di Emmaus;
  • quella ai dodici.

Giovanni ne riporta quattro:

  • a Maria Maddalena;
  • agli apostoli, assente Tommaso;
  • agli stessi presente Tommaso otto giorni dopo;
  • ai sette discepoli mentre si trovano a pescare sul mar di Galilea.

Fra tutte ecco quella personale, oculare di Pietro resa in occasione del suo discorso al tempio: «…e uccideste il Principe della vita, che Dio ha risuscitato dai morti. Di questo noi siamo testimoni» (Atti 3:15).

L’apostolo Paolo fa della risurrezione di Gesù Cristo il punto di forza e l’elemento dominante della sua predicazione. Nella chiesa di Corinto, penosamente divisa e contagiata di sadduceismo, Paolo affronta con fermezza coloro che non credono in una vita dopo la morte e ripudiano l’idea di una risurrezione finale. Ricordando i due grandi fatti che costituiscono il nocciolo centrale del Vangelo, la morte e la risurrezione di Gesù, chiede a quei cristiani come si possa predicare la risurrezione del Signore e negare nello stesso tempo quella dei morti: «Se non vi è risurrezione dei morti, neppure Cristo è stato risuscitato» (1 Corinzi 15:13). Poi, partendo proprio dalla supposizione contraria: «E se Cristo non è stato risuscitato…» (v. 14) per meglio demolirla, enumera le varie tragiche conclusioni alle quali si giungerebbe se fosse così. Eccole (1 Corinzi 15:13-19):

  • vana è la predicazione degli apostoli (v. 14);
  • vana, (da kenos, «vuoto», cioè senza contenuto, senza base, senza verità, senza portare risultato) è la nostra fede (v. 14);
  • falsa è la testimonianza degli apostoli (v. 15);
  • l’uomo resterebbe sempre nei suoi peccati (v. 17);
  • quelli che si sono addormentati in Cristo sono periti per sempre (v. 18);
  • i credenti sono i più miserabili di tutti gli uomini (v. 19);
  • tutte le lotte e le sofferenze, i martirii stessi non hanno valore alcuno e motivo di essere (v. 19).

Forse Paolo pensa alla propria esperienza, a quello che sarebbe stata la sua vita, la sua carriera, i suoi onori, rispettato, ossequiato… Ma un giorno incontra Cristo, ottiene il perdono e inizia una nuova vita fatta di fede e fedeltà destinata a finire sotto la mannaia del boia. Una vita così vissuta e una morte così sofferta sarebbero incomprensibili, ingiustificabili, immotivate e inutili se Cristo non fosse realmente risorto. «Ma ora Cristo è stato risuscitato dai morti, primizia di quelli che sono morti» (v. 20). Ecco la verità positiva che abbatte ogni dubbio, e Paolo la proclama a chiare lettere. Cristo è risuscitato dai morti, egli è uscito vittorioso dalla tomba e, poiché egli vive, anche noi vivremo.

«Infatti, poiché per mezzo di un uomo è venuta la morte, così anche per mezzo di un uomo è venuta la risurrezione dei morti» (v. 21). Che giorno glorioso sarà quello!

4. Quando avverrà? Come avverrà?

I morti «risusciteranno», ma quando? Generalmente si crede che subito dopo la morte, nella frazione di un attimo o di qualche minuto dalla esalazione dell’ultimo respiro, si debba comparire davanti a Dio. Ma se fosse così, perché si parlerebbe nella Bibbia di risurrezione? A quale scopo vi sarebbe una risurrezione se l’uomo, dopo la morte, entrasse subito in cielo? Giustino martire scriveva: «Se avete incontrato tali che si chiamano cristiani e dicono che non vi è risurrezione dai morti, ma che le loro anime sono subito accolte in cielo, non considerateli affatto per tali» (Dialogo con Trifone, cap. 80).

Antico e Nuovo Testamento sono concordi nell’indicare questo momento con una identica espressione, «ultimo giorno». «…nell’ultimo giorno io sorgerò dalla terra» (Giobbe 19:26); «…che lo resusciti nell’ultimo giorno» (Giovanni 6:39,40,54). L’espressione «ultimo giorno» si riferisce cronologicamente al giorno del «ritorno di Gesù». Allora avverrà la risurrezione.

Di questo era certo l’apostolo Paolo. Ormai vicino al martirio, non dirige il suo sguardo verso la morte ma va oltre, alla venuta del suo Signore: «…Ho combattuto il buon combattimento, ho finito la corsa, ho conservato la fede. Ormai mi è riservata la corona di giustizia che il Signore, il giusto giudice, mi assegnerà in quel giorno; e non solo a me, ma anche a tutti quelli che avranno amato la sua apparizione» (2 Timoteo 4:7,8). E la sua speranza è in armonia con l’insegnamento di Gesù: «Il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti» (Luca 14:14). Insegnamento ribadito anche nella parabola dell’uomo nobile che «se ne andò in un paese lontano per ricevere l’investitura d’un regno», e che «Quando egli fu tornato, dopo aver ricevuto l’investitura del regno, fece venire quei servi ai quali aveva consegnato il denaro, per sapere quanto ognuno avesse guadagnato mettendolo a frutto» egli distribuì le ricompense ai servitori (Luca 19:12,15).

Osserviamo ora alcuni versetti: Daniele 12:2: «Molti di quelli che dormono nella polvere della terra si risveglieranno; gli uni per la vita eterna, gli altri per la vergogna e per una eterna infamia». Giovanni 5:28,29: «… l’ora viene in cui tutti quelli che sono nelle tombe udranno la sua voce e ne verranno fuori; quelli che hanno operato bene, in risurrezione di vita; quelli che hanno operato male, in risurrezione di giudizio».

Vi saranno, quindi, due risurrezioni: la «risurrezione di vita» e la «risurrezione di giudizio». La prima interessa i salvati, la seconda riguarda i perduti. Ma avverranno tutte e due contemporaneamente? Da una prima lettura sembrerebbe proprio di sì. Ma da uno studio più attento di questi ed altri testi biblici, le due resurrezioni appaiono separate, distinte per «qualità» e «tempo».

L’apostolo Paolo, nella sua difesa davanti al governatore Festo, afferma: «avendo in Dio la speranza, condivisa anche da costoro, che ci sarà una risurrezione dei giusti e degli ingiusti» (Atti 24:15). O più precisamente: una risurrezione dei giusti e «una» degli ingiusti. Gesù stesso, come abbiamo visto, dicendo che «il contraccambio ti sarà reso alla risurrezione dei giusti», implicitamente allude anche a «quella» degli ingiusti. E tale «separazione finale» dei buoni e dei cattivi, viene riproposta nelle «parabole del Regno» (Matteo 13:41-43,49,59; 25:31-46).

Ma è in Apocalisse, cap. 20 versetti 1 e seguenti, che le due resurrezioni appaiono più distinte, separate l’una dall’altra da un periodo di «mille anni». La «prima risurrezione», riguarda coloro che hanno ben agito durante la loro vita: «essi tornarono in vita e regnarono con Cristo mille anni…» (v. 4), «Beato e santo è colui che partecipa alla prima risurrezione… saranno sacerdoti di Dio e di Cristo e regneranno con lui quei mille anni» (v. 6). Se i giusti che hanno accettato Cristo come loro Salvatore vanno in cielo per regnare con lui mille anni, è evidente che la loro risurrezione deve aver avuto luogo all’inizio dei mille anni. Questa è la risurrezione chiamata «prima risurrezione».

L’altra risurrezione, la seconda, avverrà «trascorsi i mille anni» e richiamerà in vita «il rimanente dei morti» (v. 5) o «gli altri morti» come traducono diverse versioni. Questa espressione, «il rimanente dei morti», si riferisce solo ai peccatori, a coloro che sono morti senza Cristo, che hanno disprezzato la sua misericordia e il suo perdono, perché i «giusti» sono risorti all’inizio dei mille anni. Questa seconda risurrezione, preludio alla morte seconda (Apocalisse 20:14,15) o distruzione eterna, ha luogo alla fine del regno millenario di Cristo.

Riassumendo: il millennio è distinto da due risurrezioni: quella dei buoni o «prima risurrezione» all’inizio quando Cristo ritorna, e quella dei malvagi, alla fine quando sulla terra cadrà il fuoco purificatore del cielo.

Come si risveglieranno i morti e con quale corpo essi rivivranno? Il «come» è un mistero del quale Iddio si è riservata la conoscenza. Possiamo solo rispondere con l’ausilio della Parola di Dio. Scrive l’apostolo Paolo in 1 Corinzi 15:35-37,42-44: «Ma qualcuno dirà: “Come risuscitano i morti? E con quale corpo ritornano?” Insensato, quello che tu semini non è vivificato, se prima non muore; e quanto a ciò che tu semini, non semini il corpo che deve nascere, ma un granello nudo, di frumento per esempio, o di qualche altro seme;… Così è pure della risurrezione dei morti. Il corpo è seminato corruttibile e risuscita incorruttibile; è seminato ignobile e risuscita glorioso; è seminato debole e risuscita potente; è seminato corpo naturale e risuscita corpo spirituale. Se c’è un corpo naturale, c’è anche un corpo spirituale».

Secondo il concetto biblico, deporre un cadavere nella fossa è come deporre un seme. Come dalla terra seminata germoglia una nuova pianta, così la persona sepolta risorgerà con un corpo di natura differente. Seminato corruttibile, ignobile e debole, il corpo dei riscattati di Gesù risorgerà incorruttibile, pieno di gloria e di potenza, pur conservando certe caratteristiche personali per le quali sarà dato riconoscerci.

Poi l’apostolo continua: «Ecco, io vi dico un mistero: non tutti morremo, ma tutti saremo trasformati, in un momento, in un batter d’occhio, al suono dell’ultima tromba. Perché la tromba squillerà, e i morti risusciteranno incorruttibili, e noi saremo trasformati. Infatti bisogna che questo corruttibile rivesta incorruttibilità e che questo mortale rivesta immortalità. Quando poi questo corruttibile avrà rivestito incorruttibilità e questo mortale avrà rivestito immortalità, allora sarà adempiuta la parola che è scritta: “La morte è stata sommersa nella vittoria”» (vv. 51-54). E così saremo «simili a Lui» (1 Giovanni 3:8). Simili a Lui non vuol dire uguali a Lui nel rango. Noi non saremo dii, ma simili a Lui nell’essere (1 Corinzi 15:42-49).

Come era il corpo di Gesù risorto? Quali proprietà nuove e diverse da quelle del nostro corpo attuale possedeva? Cristo aveva un corpo trasformato, incorruttibile, glorioso, spirituale, celeste. Era di una composizione tale da poter apparire alle persone e scomparire. Entrare in una stanza anche se chiusa, pur essendo il suo corpo palpabile. Mangiava con gli altri, era riconoscibile e tuttavia non soggetto alle restrizioni alle quali sono sottomessi i nostri corpi.

Noi riceveremo un corpo simile non più esposto alla morte. Un corpo che sarà «né copia servile del nostro corpo carnale, né completa rottura con lo stato presente: tale sarà il corpo dei risuscitati. Avverrà di questo corpo, come di quello di Cristo all’uscita dalla tomba: una gloriosa trasformazione, una vera apoteosi del corpo che poche ore prima era venuto meno sotto il peso della croce» (Paul Valloton, cit. da C. GERBER, Dal tempo all’eternità, Firenze 1970, p. 237). Questo cambiamento avverrà, afferma l’apostolo Paolo «in un momento». Nel greco abbiamo questa espressione: en atomo, cioè in un punto indivisibile del tempo, a significare l’estrema rapidità, maggiore di quella del batter ciglio con la quale questo cambiamento avverrà.

Che momento stupendo! Gesù «trasformerà il corpo della nostra umiliazione rendendolo conforme al corpo della sua gloria, mediante il potere che egli ha di sottomettere a sé ogni cosa» (Filippesi 3:21). Questo avverrà al ritorno di Cristo, all’inizio del millennio. Quando i giusti morti risorgeranno immortali, i giusti viventi in quel momento, saranno resi immortali senza conoscere la morte, e tutti saranno «insieme rapiti… sulle nuvole a incontrare il Signore nell’aria» (1 Tessalonicesi 4:17). Allora sarà realizzata completamente la beata promessa del Signore fatta alla vigilia della sua crocifissione: «Il vostro cuore non sia turbato; abbiate fede in Dio, e abbiate fede anche in me! Nella casa del Padre mio ci sono molte dimore; se no, vi avrei detto forse che io vado a prepararvi un luogo? Quando sarò andato e vi avrò preparato un luogo, tornerò e vi accoglierò presso di me, affinché dove sono io, siate anche voi» (Giovanni 14:1-3). «E così saremo sempre con il Signore» (1 Tessalonicesi 4:17).

Un ulteriore pensiero. Si accennava, all’inizio, a certi casi in cui persone «realmente» morte erano risorte e apparse vive trai viventi. Lo attestano le numerose resurrezioni riportate dalla Scrittura (1 Re 17:19-24; 2 Re 4:32-35; 8:5; Giovanni 11:11-14; 12:9; Matteo 9:23-25; Luca 7:12-45; Atti 9:36-41; 20:9-12) e quella straordinaria avvenuta alla morte di Gesù quando «le tombe s’aprirono e molti corpi dei santi, che dormivano, risuscitarono» (Matteo 27:52).

Le stesse Scritture ci parlano di persone che non conobbero la morte, come Enoc ed Elia (Genesi 5:21-24; Ebrei 11:5; 2 Re 2:11-17). Come pure ci parlano di Mosè che alla sua morte fu sepolto da Dio stesso «e nessuno fino ad oggi ha mai saputo dove fosse la sua tomba» (Deuteronomio 34:1-7). Ora in Matteo 17:3 ove si parla dell’episodio della trasfigurazione, questo personaggio ricompare insieme a Elia conversando con Gesù. È Mosè, non il suo fantasma, Mosè dopo la sua morte fu risuscitato da Dio. Ecco: Enoc ed Elia rapiti viventi in cielo, sono il simbolo di coloro che, viventi al momento del ritorno di Cristo, saranno traslati in cielo senza passare attraverso la morte. Mosè è il tipo di coloro che sono morti in Cristo e attendono la gloriosa risurrezione.

Scrive l’apostolo Paolo: «Fratelli, non vogliamo che siate nell’ignoranza riguardo a quelli che dormono, affinché non siate tristi come gli altri che non hanno speranza. Infatti, se crediamo che Gesù morì e risuscitò, crediamo pure che Dio, per mezzo di Gesù, ricondurrà con lui quelli che si sono addormentati… perché il Signore stesso, con un ordine, con voce d’arcangelo e con la tromba di Dio, scenderà dal cielo, e prima risusciteranno i morti in Cristo; poi noi viventi, che saremo rimasti, verremo rapiti insieme con loro, sulle nuvole, a incontrare il Signore nell’aria; e così saremo sempre con il Signore. Consolatevi dunque gli uni gli altri con queste parole» (1 Tessalonicesi 4:13,14,16-18).

Il centro della speranza evangelica è, dunque, la risurrezione. I viventi e i morti, aspettano tutti il ritorno del principe della vita. Da questo ritorno dipende la trasformazione dei corpi mortali. È verso l’adempimento di questa sublime attesa che si volgono i nostri sguardi (1 Corinzi 15:51-55). La speranza del prossimo ritorno di Cristo e la risurrezione degli eletti fu la consolazione dei credenti di tutti i secoli, la beata speranza, la verità di Dio.

In un vecchio cimitero di Filadelfia, negli Stati Uniti, si trova la tomba di Benjamin Franklin. Su essa, lo scienziato e statista aveva voluto che fosse scritto un epitaffio da lui stesso composto:

«Qui giace il corpo di
Benjamin Franklin, tipografo,
Pasto al vermi
(Simile alla copertina di un vecchio libro,
Al suo indice lacerato,
E a ciò che rimane del suo testo e della
sua doratura);
Ma l’opera non andrà persa,
Perché (com’egli credette) riapparirà ancora
In una nuova
E più elegante edizione
Riveduta e corretta dall’Autore».

Questa speranza non è stata solo la sua, ma anche quella dei credenti attraverso tutte le età. Se vogliamo può essere anche la nostra.

Bibliografia

AA.VV., Vivere per sempre, Edizioni ADV, Impruneta Firenze, 2008.

La confessione di fede degli Avventisti del 7° Giorno, Le 28 verità bibliche fondamentali, Edizioni ADV, Impruneta Firenze, 2010, cap. 26.

Per acquistare questi volumi puoi visitare il sito: www.edizioniadvshop.it o richiederlo al responsabile della libreria di chiesa della comunità avventista che frequenti)

Bibliografia

AA.VV., Vivere per sempre, Edizioni ADV, Impruneta Firenze, 2008.

La confessione di fede degli Avventisti del 7° Giorno, Le 28 verità bibliche fondamentali, Edizioni ADV, Impruneta Firenze, 2010, cap. 26.

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