Buone Notizie #25

SUPPLEMENTI PER LA LETTURA E L’APPROFONDIMENTO

LA CENA DEL SIGNORE

di Riccardo Orsucci

(dal libro AA.VV., Dizionario di dottrine bibliche, Edizioni ADV, Falciani Impruneta FI, 1990)

Greco: kuriakon deipnon, termine che Paolo usa per riferirsi all’ultima cena pasquale del Cristo (1 Corinzi 11:20). Da questo appellativo si capisce la variante, usata nel mondo evangelico, di «Santa Cena».

La parola «eucarestia», usata nel mondo cattolico, proviene dalla parola greca eucharistia che significa «rendimento di grazie», «ringraziamento» presente nei vangeli sinottici e in 1 Corinzi in connessione con la preghiera rivolta da Gesù prima di distribuire il pane e il calice agli apostoli. Comunque, la parola più usata, sempre tra i cattolici, per riferirsi a  questa istituzione è certamente «comunione» (greco: koinonia).

L’apostolo Paolo incoraggia i fratelli (1 Corinzi 10:14-22) ad abbandonare l’idolatria avvisandoli che non è possibile partecipare alla «mensa del Signore» e alla «mensa dei demoni», perché significherebbe entrare in «comunione» con il Signore e con i demoni.

Vista l’importanza che ha assunto, sempre nel pensiero cattolico, sia la benedizione-ringraziamento (eucharistia) sia la «comunione» materiale con il corpo e il sangue di Cristo, si capisce facilmente come i termini «eucarestia» e «comunione» siano venuti a designare oggi l’intera cerimonia.

In questo lavoro useremo indifferentemente i termini «Cena del Signore» e «Santa Cena». Li preferiamo, non solo per la fedeltà al testo biblico, ma anche perché, non sottolineando un significato in particolare, non ne escludono alcuno.

Nuovo Testamento

L’istituzione della «Cena del Signore» è raccontata in modo simile nei vangeli sinottici (Matteo 26:26-29; Marco 14:22-25; Luca 22:15- 20) e da Paolo (1 Corinzi 11:17-30). Giovanni, come vedremo, pur parlando della stessa «Cena», non segue lo schema degli altri scrittori sacri (Giovanni 13:1-20).

Oltre a questi testi, che saranno la base del nostro studio, esistono altri riferimenti alla «Santa Cena» che menzioneremo senza approfondirli (Giovanni 6:51-58; Atti 2:42,46; 20:7,11; Ebrei 9:20; 10:22; 13:10).

1. I vangeli sinottici e la Prima Lettera ai Corinzi. Questi quattro racconti sono concordi nel raccontare i particolare di quella memorabile serata:

a) le indicazioni date ai discepoli per preparare la Pasqua;

b) è chiaramente una serata pasquale;

c) il traditore è smascherato;

d) Gesù benedice il pane e il calice e li distribuisce a tutti.

2. Il vangelo di Giovanni. Nonostante Giovanni non segua lo schema degli altri evangelisti nel raccontare gli eventi dell’ultima Pasqua del Cristo, è evidente che il cap. 13  del suo vangelo deve inserirsi nello stesso contesto per le seguenti ragioni:

a) indicazione della Pasqua (v. 1);

b) annuncio della passione (vv. 1,3);

c) il gruppo sta cenando (vv. 2,18,26,27,30);

d) il traditore è smascherato (vv. 2,11,18,21-30);

e) menzione del pane (vv. 18,26,27,30);

f) riferimento alla «notte» (v. 30), momento in cui si celebra la Pasqua.

La diversità nel raccontare gli stessi eventi dipende dal fatto che Giovanni, che scrive per ultimo rispetto agli altri evangelisti, mette in risalto alcuni aspetti e significati sui quali la  chiesa della fine del primo secolo si interrogava e cioè:

  • il traditore (vv. 2,10,11,18,19,21-30). Il notevole spazio consacrato a Giuda Iscariota rispecchia la tradizione cristiana del momento secondo la quale i colpevoli della morte di Cristo non erano i Giudei (molti dei quali ormai si convertirono), ma delle singole persone quali Pilato, Erode e, evidentemente, Giuda.
  • La «conoscenza» del Cristo. La morte di Gesù è stata un incidente di percorso non previsto nel ministero messianico? Satana ha forse preso il sopravvento e ha sconfitto finalmente il Cristo? Giovanni risponde a questi quesiti della sua epoca inserendo nel suo racconto un’insistente terminologia della «conoscenza»: v. 1, Gesù conosce il momento in cui vive («…sapendo…»); v. 3, Gesù conosce la sua missione dall’inizio alla fine («…sapendo…»); v. 7, i discepoli non capiscono la missione («…tu non sai…»); v. 11, Gesù conosce il traditore («…sapeva…»); v. 17, i discepoli incoraggiati a capire («…se sapete…»); v. 18, Gesù conosce i dodici e certo anche Giuda («…io ..»). Quindi Giovanni ci rivela che Gesù è padrone della situazione, domina gli eventi, preconoscendoli. Inoltre, è Gesù che, con un suo gesto (v. 26 «dando il boccone a Giuda»)   e con una sua parola (v. 27 «quel che fai, fallo presto»), permette a Satana di agire. Giovanni non lascia dubbi: è Gesù che domina la sua passione, è Lui che dà la propria vita volontariamente nel momento da Lui deciso.
  • L’amore fraterno. L’apostolo dell’amore non poteva tralasciare questa opportunità così importante e solenne per trasmettere da parte del Cristo un messaggio di carità cristiana: v. 14 «…anche voi dovete lavare i piedi…»; v. 15 «…vi ho dato l’esempio… voi facciate come v’ho fatto io»; v. 16 «…il servitore non è maggiore del suo Signore…»; 34 «…amatevi gli uni gli altri…»; v. 35 «…se avrete amore gli uni gli altri».

«Significati della Cena del Signore»

  1. Lavanda dei piedi (Giovanni 13). Con ogni probabilità Gesù procedette al rito della lavanda dei piedi in favore dei suoi discepoli dopo la cena pasquale e prima della «Cena del Signore». I significati inclusi in questa prima parte della «Santa Cena» sono:

a) Umiliazione. I discepoli dominati dall’orgoglio e dalla presunzione (Luca 22:24-27 e parall.) ricevono da questo rito una lezione pratica di umiltà e di uguaglianza.

b) Purificazione. L’allusione ad un bagno totale (v. 10) è generalmente considerato un riferimento al battesimo quindi alla purificazione dei propri peccati (Atti 2:38). La «lavanda dei piedi» ricorderebbe al peccatore «già lavato» la necessità di andare continuamente a Cristo per ricevere il perdono indispensabile per vivere, ogni giorno, nella pace e nella grazia della

c) Servizio-sacrificio. Prima di procedere al rito Giovanni per tre volte (vv. 1-3) menziona, anche se indirettamente, il compimento della missione del Maestro («li amò sino alla fine», «di tradirlo», «e a Dio se ne tornava»). La lavanda dei piedi è collocata da Giovanni come risposta di Gesù alla consapevolezza della propria missione di «sacrificio» («sapendo… si levò da tavola…»). Nel dialogo con Pietro, Gesù indica il valore di eterna salvezza del rito («se non ti lavo non hai meco parte alcuna», v. 8). Inoltre, l’affermazione che Pietro avrebbe capito «dopo» (v. 7) il significato del gesto del Maestro è certamente un’allusione alla passione.

Giovanni vuol rivelarci quindi che la «lavanda dei piedi», oltre alle lezioni di umiltà e di purificazione, è rivelazione della missione stessa del Messia il quale è venuto «non per essere servito, ma per servire» (Matteo 20:28; cfr. Luca 22:27) e per amare «sino alla fine» (v. 1).

Senza questo servizio-sacrificio io non posso vivere (v. 8). Ma non solo. Giovanni vuol affermare che la mia salvezza non dipende solo dalla morte di Gesù, ma anche dalla mia accettazione del suo servizio-sacrificio. Possiamo quindi affermare che  la  «lavanda  dei piedi» non è solo una preparazione alla «Santa Cena» vera e propria, ma forma un tutt’uno con essa essendo, entrambi i riti, basati sullo stesso profondo significato.

È da notare, inoltre, il triplice ordine di Gesù di praticare la «lavanda dei piedi» (vv. 14,15,17) col quale Giovanni certamente desidera rafforzare la pratica del rito nella chiesa del suo tempo.

2. La «Cena del Signore». I quattro testi, già citati sopra, che raccontano l’episodio della «Santa Cena», mettono in risalto alcuni significati che hanno una triplice proiezione nel tempo:

a) Nel passato. «Fate questo in memoria di me» (Luca 22:19; 1 Corinzi 11:24,25) significa riportarci nel passato e commemorare non solo il rito, ma ciò che esso implica: sofferenza del Signore (Luca 22:15); morte del Cristo (1 Corinzi 11:26); alleanza col  suo  sangue (Matteo 26:28 e parall.); perdono nel sangue (Matteo 26:28).

b) Nel presente. «Fate questo in memoria di me» non significa soltanto tornare al passato, ma anche rivivere oggi quei significati che erano attuali per i discepoli (1 Corinzi 11:27-29). La sofferenza e la morte del Signore, il suo perdono e il suo patto devono essere vissuti in prima persona oggi. Questi valori e significati devono essere «annunziati» ancora oggi (1 Corinzi 11:26).

c) Nel futuro. «Finché Egli venga» (1 Corinzi 11:26; cfr. Matteo 26:29 e parall.) significa vivere oggi con fede la salvezza realizzata da Cristo; quindi avere la certezza che, quando il Signore ritornerà, tutti rivivremo l’esperienza dei dodici in quella sera memorabile (cfr. Ebrei 11:1). Vivere oggi quel passato indimenticabile è annunzio di vita eterna e di resurrezione (Giovanni 6:53,54).

La «Santa Cena» è, in modo concentrato, l’intero messaggio evangelico che inizia con la venuta del Messia, la sua morte e resurrezione che continua con la nostra accettazione di fede e che finisce con l’incontro tra il Salvatore e i redenti al suo ritorno in gloria.

Il senso delle parole «questo è il mio corpo», «questo è il mio sangue»1

Riteniamo che l’unico senso possibile da dare a queste parole sia simbolico per le seguenti ragioni:

  1. Gesù era vivente e presente come lo erano i discepoli quella sera e sarebbe assurdo pensare che i dodici ricevessero e mangiassero (e bevessero) parte del corpo (e del sangue) del Maestro.
  2. Altre parole del Cristo, dette in quella serata, non possono essere comprese se non in senso simbolico:
  • «…preso del pane… lo ruppe… è il mio corpo dato per voi…» (Luca 22:19; 1 Corinzi 11:23,24).
  • Il «rompere» il pane era simbolo della sua morte, era «dare» il suo corpo, fatto questo che è avvenuto non alla cena, ma sulla croce.
  • «Questo calice è il nuovo patto nel mio sangue…» (Luca 22:20; 1 Corinzi 11:25). Il nuovo patto non è il «calice», ma ciò che esso rappresenta per il credente.
  • «Se non ti lavo, non hai con me parte alcuna» (Giovanni 13:8). La salvezza non scaturisce dall’acqua, ma dalla fede di chi si lascia servire (o salvare). Infatti Giuda, pur essendo lavato, non è salvato.

3. Il linguaggio usato da Gesù non è nuovo e mai si potrebbe dare un senso letterale a frasi come queste:

  • «Io sono la via, la verità e la vita» (Giovanni 14:6); 2) «Io sono la porta delle pecore» (Giovanni 10:7); 3) «Io sono la vera vite» (Giovanni 15:1);
  • «il campo è il mondo» (Matteo 13:38).
  • Giovanni 6:27-58. Dopo aver raccontato il miracolo della moltiplicazione dei pani Giovanni inserisce il discorso  di  Gesù  quale  pane  della  vita,  dando  un  significato certamente «eucaristico» ai vv. 51-58. Il discorso «duro» da comprendere ha certamente un valore simbolico, infatti Gesù stesso, alla fine, afferma che:

a.  la carne non giova a nulla (v. 63);

b. sono le parole del Maestro che danno vita (v. 63);

c.  la vita eterna è di chi crede (vv. 47,64). D’altronde non è nuova l’idea che la Parola di Dio sia alimento e vita (Matteo 4:4; Giovanni 4:34).

È possibile che tramite la «Cena del Signore» il sacrificio di Cristo si ripeta?2

Riteniamo che celebrare la «Santa Cena» non possa essere affatto una ripetizione del sacrificio del Salvatore per le seguenti ragioni:

  1. Il sacrificio di Cristo è centrato sulla croce e non sulla «Santa Cena». Distribuendo il pane e il calice Gesù, come in una parabola vivente, profetizza e non realizza, la sua morte che avverrà l’indomani. Se la prima «Cena» non aveva un senso letterale (di sacrificio) non si capisce perché dovrebbe averlo
  2. La «Santa Cena» è «annunziare» la morte del Signore (1 Corinzi 11:26). Si può parlare di attualizzazione del passato, di anticipazione del futuro, ma mai di ripetizione del sacrificio.
  3. Il sacrificio della croce è unico e irripetibile. L’epistola agli Ebrei non lascia dubbi: il sacrificio di Cristo è stato unico, sufficiente a salvare tutta l’umanità e irripetibile nel tempo (9:12,25-28; 10:10-14). Ritenere che il sacrificio di Cristo debba ripetersi per la nostra salvezza è ridurre tale sacrificio a quello dei tanti animali dell’Antico Testamento, è non aver accettato l’opera redentrice del Messia, è spostare l’asse del Vangelo da Cristo (e la croce) all’uomo (e l’altare).

Partecipare alla «Cena del Signore» significa godere automaticamente di una grazia salvifica?3

I testi in esame affermano proprio il contrario, infatti:

  1. Giuda partecipa alla cena (Giovanni 13), ma a sua propria perdizione.
  2. Satana pare entrare in Giuda proprio nel momento in cui riceve il pane da Gesù (Giovanni 13:27). È il paradosso: Giuda riceve il «corpo del Signore» ed è Satana che entra in lui… Giovanni vuol togliere ogni idea «magica» a riguardo della
  3. Ciò che determina la perdizione di Giuda non è il partecipare o meno alla «Cena», ma il fatto che Giuda aveva già deciso in cuor suo di tradire il Salvatore prima ancora di lasciarsi lavare i piedi (Giovanni 13:2). Nel discorso sul pane della vita Gesù ribadisce che ciò che vale non è la carne, mala fede (Giovanni 6:47,63; cfr. 3:15,16,18,36).
  4. Paolo invita ad un esame di coscienza prima di partecipare alla «Cena», perché esiste la possibilità di essere «colpevoli» e addirittura «condannati» (1 Corinzi 11:27,32). Sembra che l’apostolo, riprendendo i Corinzi per la loro irriverenza (vv. 27-29) e per il loro egoismo materialista vv. 20-22,33), peraltro sfociati in decadenza fisica (v. 30), abbia in mente proprio l’esperienza di Giuda (colpevole della morte di Gesù… mangia e beve un giudizio su se stesso… non discerne il significato della «Cena»… e viene condannato con il mondo…). Comunque sia, Paolo è chiaro: ciò che dà valore al rito è la mia comprensione e fede in ciò che esso rappresenta.

Bisogna essere «perfetti», «santi» per partecipare alla «Cena»?

Il Nuovo Testamento ci racconta che alle varie «Cene del Signore» parteciparono i dodici apostoli (compreso Giuda), i credenti della chiesa primitiva (Atti 2:42,46; 20:7,11) e quelli di Corinto (1 Corinzi 10). Sarebbe assurdo pretendere che tutti i credenti di allora fossero «perfetti». È vero che Paolo mette in guardia i credenti di Corinto dal partecipare alla «Cena» senza aver compreso i significati profondi ed eterni del rito, ma dopo aver detto: «Provi l’uomo se stesso», aggiunse: «E così mangi del pane e beva del calice» (1 Corinzi 11:28). Paolo non incoraggia l’astensione dalla «mensa del Signore», ma condanna chi non compie i passi necessari per parteciparvi. La «Cena» , simbolo della sua morte, è il mezzo supremo usato da Cristo per «attrarre» a sé il peccatore (Giovanni 3:14; 8:28; 12:32,33). Chiunque si riconosce tale e vede in Cristo l’Agnello di Dio ha il diritto di partecipare alla «Cena» annunziando così la sua gioia e certezza di salvezza in Cristo Gesù.

Che tipo di pane e di bevanda usò Gesù nella «Cena?»

Il pane era certamente «azzimo» (senza lievito) in quanto, secondo la legge antica (Esodo 12:15-20), durante tutta la settimana pasquale era proibito usare un altro tipo di pane (cfr. Luca 22:7 e parall.; parlano del giorno degli azzimi). Per la bevanda bisogna tener conto dei seguenti dati:

  1. I testi che abbiamo esaminato parlano unicamente di «calice» e di «frutto della vigna».
  2. Al tempo di Cristo prima e dopo la cena pasquale si bevevano quattro coppe (R. MARTIN- ACHARD, Essai Biblique sur les fêtes d’Israël, 42).
  3. Sempre al tempo di Gesù il giorno 13 del mese di Nisan (prima, quindi, dell’inizio della cerimonia pasquale) si eliminava ogni prodotto fermentato (R. MARTIN- ACHARD, cit., p. 41; A. VAUCHER, La Sainte Cène, pp. 31-34).
  4. La parola greca methuei tradotta con «ubriaco» (1 Corinzi 11:21) può anche riferirsi al mangiare con ingordigia, senza limiti. In questo caso il testo citato potrebbe essere meglio tradotto: «Mentre l’uno ha fame, l’altro è sazio».4

Da queste osservazioni concludiamo che la bevanda usata da Gesù in quella serata pasquale era del vino dolce (succo d’uva non fermentato) o dello sciroppo d’uva diluito in acqua (sempre non fermentato).5

Qual è la frequenza della celebrazione della «Cena»?

La Chiesa apostolica ha compreso chiaramente che la «Cena del Signore» doveva essere ripetuta e rivissuta nel tempo come lo prova, tra gli altri testi già menzionati, l’esempio dei Corinzi. Nel Nuovo Testamento non vi è però nessuna indicazione relativa alla frequenza  che tale rito doveva avere nell’anno. Comunque, dai testi degli Atti (2:42,46) e della prima lettera ai Corinzi, si capisce che la chiesa primitiva celebrava frequentemente la «Santa Cena» in occasione di pasti in comune («agapi»). Evidentemente per la chiesa primitiva celebrare la «Cena» era sentire di nuovo presente il loro Maestro e Salvatore e, in un certo senso, abbreviare il tempo che li separava dal suo ritorno in gloria. Era motivo di gioia e di testimonianza dell’amore di Dio e della comunità. Non sorprende quindi chela chiesa rivivesse questi momenti il più frequentemente possibile.

La Chiesa avventista non ha delle date obbligatorie nelle quali celebrare la «Cena del Signore». Ogni comunità è libera di scegliere i momenti e la frequenza più opportuna secondo la propria vita di fede e comunitaria.

Testi biblici

L’istituzione

a) Santa Cena: Matteo 26:26-29; Marco 14:2225; Luca 22:15-20;

b) Lavanda dei piedi: Giovanni 13:1-20.

Vissuta nella chiesa: Atti 2:42,46; 20:7,11; 1 Corinzi 11:17-30.

Significati

a) Lavanda dei piedi: umiliazione: Luca 22:24-27; Giovanni 13:4,5; purificazione: Giovanni 13:8-10; sacrificio-salvezza: Giovanni 13:7,8;

b) Santa Cena: ricordo della morte: Luca 22:19; annunzio del ritorno: 1 Corinzi 11:26.

Questo è il mio corpo: Giovanni 6:47,63.

Sacrificio unico: Ebrei 9:12,25-28; 10:10-14

Tutti invitati alla «Cena»: 1 Corinzi 11:27,28

NOTE

  1. Secondo la teologia cattolica, quando il sacerdote benedice gli elementi sull’altare, essi, pur mantenendo la stessa apparenza di pane e vino, divengono realmente e integralmente il corpo e il sangue di Cristo. Questa trasformazione degli elementi della «Santa Cena» è chiamata «transustanziazione». Tale dottrina, apparsa per la prima volta nel IX secolo con il monaco Radberto, è stata definita in dogma nel Concilio del Laterano (nel 1215) e, in seguito, nel Concilio di Trento (nel 1551). (Cfr. A.F. VAUCHER, La Sainte Cène, Fides, Collonges-sous-Salève, 1965, pp. 67,68; SDABC, vol. 9, pp. 1043-1047).
  2. Sempre secondo il dogma della «transustanziazione», durante la messa avverrebbe, oltre alla trasformazione degli elementi, anche la ripetizione del sacrificio di Cristo.
  3. Sempre secondo il pensiero cattolico, la «Cena» farebbe parte dei sette sacramenti i quali, secondo il  Concilio di Trento, conferiscono la grazia per loro propria virtù indipendentemente dalla fede di colui che li riceve.
  4. Comunque, anche se i Corinzi si ubriacassero veramente nelle «agapi» ciò non significherebbe obbligatoriamente che usassero delle bevande alcoliche anche per la «Cena del Signore». (A.F. VAUCHER, op. cit., pp. 32,33).
  5. Clemente d’Alessandria, Origene, Gerolamo, Basilio, Cipriano erano convinti che il vino non fosse fermentato (A.F. VAUCHER, ibid.).

Bibliografia

La confessione di fede degli Avventisti del 7° Giorno, Le 28 verità bibliche fondamentali, Edizioni ADV, Impruneta Firenze, 2010, cap. 16.

(Per acquistare questo volume puoi visitare il sito: www.edizioniadvshop.it o richiederlo al responsabile della libreria di chiesa della comunità avventista che frequenti)

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